l’Italia – secondo alcuni osservatori “isolata” al tavolo delle nomine Ue – ha chiesto a Bruxelles, per bocca del sottosegretario alla Presidenza Giancarlo Giorgetti, il commissariato all’Industria o all’Antitrust: due dicasteri economici di peso, come ha dettato fin dall’inizio l’agenda del Governo verde-giallo dopo il voto del 26 maggio.
L’Industria era retta dall’Italia – con Antonio Tajani, oggi presidente uscente del Parlamento Ue – prima che il governo Renzi ottenesse l’Alta Rappresentanza per la Politica Estera e la Sicurezza per Federica Mogherini. Dalla stanza dei bottoni (leghista) di palazzo Chigi sembra dunque giungere un una classica mossa d’assaggio tattico, non priva di qualche segnale simbolico. All’Italia del 2019 non spiacerebbe ripartire da dove si era fermato l’ultimo governo Berlusconi (spazzato via nel 2011 da governo Monti, legato alla tecnocrazia di Bruxelles) e da un filo lasciato interrotto da un esponente italiano del Ppe asceso poi a una casella di primo livello nell’euro-organigramma, ora in via di rimpasto.
Assai più provocatoria – ma non priva di senso politico-diplomatico – l’ipotesi Concorrenza: ricoperto dall’Italia con lo stesso Monti, originariamente indicato a Bruxelles dal primo governo Berlusconi. La strategica casella Antitrust, inoltre, verrà probabilmente lasciata libera da Margrethe Vestager, la liberale danese in questo momento frontrunner per la successione a Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione. Una rigorista nordica, finora avversaria irriducibile dell’Italia sui salvataggi bancari. Roma che pretende – a parole – quella poltrona, sta dicendo che Verstager – al momento – non rientra nel novero dei nomi graditi al vertice di Bruxelles.
È assai probabile, tuttavia, che l’esito effettivo del risiko delle poltrone non includa per l’Italia nessuno dei due obiettivi inizialmente dichiarati. Se il Governo italiano – dov’è ora più forte dell’influenza della Lega – dovesse anzitutto insistere sulla tattica del “muro contro muro”, non è escluso che Roma consolidi un atteggiamento di “opposizione” all’interno dell’esecutivo Ue, riservandosi una poltrona apparentemente laterale ma elettoralmente interessante come il commissariato all’Agricoltura (qui il candidato resta il presidente della Regione Veneto ed ex ministro Luca Zaia). Ma “l’isolamento” dell’Italia – fin d’ora più manifestamente voluto da Francia e Germania che da Roma – potrebbe rivelarsi un azzardo per tutti e consigliare quindi Parigi e Berlino – fra l’altro oggi in sintonia minima – a coinvolgere l’Italia nelle tornate finali. E alcuni ballon d’essai di compromesso cominciano già a filtrare.
Il più interessante è quello chiaramente delineato sabato da Tonia Mastrobuoni, corrispondente di Repubblica dalla Germania. In sintesi: il “sistema tedesco” – forse non più del tutto coincidente con la leadership di Angela Merkel – si accingerebbe a puntare con determinazione sulla presidenza della Bce, finora mai ricoperta. Il candidato è chiaramente il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann, “euro-falco” per eccellenza, Herr Nein in ogni giorno del mandato di Mario Draghi, ora in scadenza. Dicono lo sia stato anche durante l’ultimo “consiglione” dell’Eurotower, il primo dopo il voto europeo: al termine del quale Draghi ha prospettato un possibile prosieguo delle politiche di stimolo monetario. In modo un po’ inatteso: tanto che qualcuno vi ha visto un primo indizio di un nuovo confronto in corso.
Weidmann sa per primo che senza un viatico anche minimo da parte di Draghi – banchiere centrale di solido riferimento per i mercati finanziari – un suo approdo al vertice Bce sarebbe incerto o comunque debole nelle premesse. Di qui un possibile scenario: la Bce al banchiere tedesco, ma con forme di “passaggio di consegne” rispetto a Draghi. E nel “contratto” potrebbe rientrare il mantenimento del seggio che l’Italia ha ininterrottamente mantenuto nell’esecutivo Bce. Qui potrebbe essere verosimilmente promosso l’attuale governatore Bankitalia Vincenzo Visco (assai più che essere ripescato Lorenzo Bini Smaghi, in esecutivo a Francoforte fino all’avvento di Draghi).
Un “pacchetto italiano Bce” con Visco che affiancherebbe Andrea Enria – fresco designato al vertice del Consiglio di Supervisione bancaria – certificherebbe un importante peso italiano nella transizione Ue: che potrebbe non essere sgradito a una Lega “governativa”, che potrebbe completare da una posizione di forza un assestamento del vertice Bankitalia (senza dimenticare che Draghi è stato chiamato prima alla guida Bankitalia poi indicato per la Bce da un governo Berlusconi, in entrambi i casi con l’intervento attivo del sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta). Lo sviluppo possibile di un simile schema – cui certamente non è disattento il Capo dello Stato, Sergio Mattarella – avrebbe quindi impatti non trascurabili sull’evoluzione politica tout court in Italia (ma anche di ritorno in Europa, laddove Forza Italia partecipa al Ppe).
La partita, comunque, non è ancora realmente cominciata. E al 90° minuto (se non addirittura al 120° o a una ruolette-rigori) il risultato potrebbe essere diverso da tutti quelli oggi pronosticabili sulla carta. L’attivismo autorevole di Draghi sembra autorizzare perfino l’esito forse più ambizioso per il “partito europeista”: un’accelerazione – sul nome del presidente uscente della Bce – del progetto di riforma dell’eurozona, con la messa in cantiere del “ministero delle Finanze Ue”. Quello che potrebbe istituzionalmente decidere un’applicazione modulata, “2.0”, dei parametri di Maastricht. Che è il “desideratum” di Matteo Salvini, premier italiano di fatto, ma non solo. Anche la Francia di Macron potrebbe esservi interessata. E, chissà, anche la Germania di un dopo-Merkel meno lontano di quanto si possa immaginare.