La volontà di legiferare sull’eutanasia e sul suicidio assistito continua ad esser fonte di accesi ed aspri dibattiti in molti paesi, Italia compresa. È l’eterna disputa tra il diritto a disporre di sé con una libertà che non conosce limiti e quel diritto alla vita che in realtà altro non è che la saggia amministrazione di un bene ricevuto, che va curato nel migliore dei modi possibili.
Vale la pena ricordare che l’eutanasia è legale nei tre paesi del Benelux: Olanda, Belgio e Lussemburgo, a partire dal 2002, mentre il suicidio assistito è legale in Svizzera e in alcuni stati dell’America del Nord. Ma da alcuni anni il dibattito si sta facendo sempre più incalzante anche in Europa sulla scia di alcuni casi umani, ampiamente enfatizzati sulla stampa. In Spagna infatti, giovedì 17 dicembre, il Congresso dei Deputati, la Camera Bassa del Parlamento spagnolo, ha dato il via libera, con 198 voti a favore, 138 contrari e 2 astenuti, al testo di legge che ratifica il diritto all’eutanasia. È vero che manca il placet definitivo del Senato, ma dato l’attuale quadro politico il voto positivo sembra scontato. Il timore è che il dibattito si estenda presto anche al nostro Paese. In Italia, infatti, dopo l’approvazione della legge sulle Dat, una legge sommamente ambigua che la stessa Corte Costituzionale ha considerato una porta aperta per l’introduzione del suicidio assistito, è fermo alla Camera dei Deputati un disegno di legge che depenalizza il suicidio assistito e quindi di fatto spalanca la porta all’eutanasia attiva, a carico del Ssn.
La legge spagnola depenalizza tutti quegli atti con cui si dà direttamente la morte al paziente, ovvero lo si aiuta a morire, in determinate situazioni e riconosce un diritto individuale ad accedere pubblicamente e su richiesta all’eutanasia, sia attiva che passiva. Nel primo caso ciò accade quando un medico pone fine direttamente alla vita del paziente su sua richiesta; nel secondo caso si pongono tutte le circostanze del suicidio assistito, ossia quando una persona decide di morire con l’assistenza di un medico, che si fa carico dell’intero processo. La legge spagnola prevede che l’eutanasia, in qualsiasi modo venga praticata, sia garantita dal Sistema sanitario nazionale, e si possa svolgere in centri pubblici, privati o convenzionati, oltre che a domicilio.
Le condizioni poste dalla legge riguardano il soggetto che deve essere maggiorenne; deve avere nazionalità spagnola, o per lo meno deve vivere da almeno 12 mesi in Spagna, deve essere affetto da una malattia grave e incurabile o deve presentare una condizione grave, cronica e invalidante, che gli provochi sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili. Deve inoltre essere capace di agire e decidere in modo autonomo, consapevole e informato. La legge prevede inoltre che la persona possa in qualsiasi momento revocare il consenso prestato. A chi si rivolge al Ssn per richiedere un trattamento, evidentemente irreversibile, come l’eutanasia viene fornita per iscritto ogni informazione relativa alle possibilità terapeutiche disponibili per trattare una malattia o una condizione come la sua. E viene prospettato il nuovo iter che fa capo alle cure palliative attualmente disponibili. La sua richiesta è analizzata da due medici diversi e da una Commissione di Garanzia e Valutazione, che dovrebbe effettuare un controllo preventivo. L’intero iter può essere abbreviato se il medico ritiene che la morte del paziente sia imminente oppure che possa perdere la capacità di concedere il consenso informato. Al medico viene garantito il diritto all’obiezione di coscienza.
Per il premier spagnolo Pedro Sánchez del Partito socialista spagnolo, che ha fermamente voluto la legge, si tratta di una grande conquista sociale e di un vero e proprio progresso sul piano della libertà e dei diritti civili.
La legge spagnola sull’eutanasia ripercorre a grandi passi quanto già accaduto in Olanda ed in Belgio, in cui la legge è stata introdotta con una serie di misure di contenimento, ma che poi nel tempo si è allargata fino ad includere i minori, i pazienti depressi, i soggetti con Alzheimer, ecc. Ossia si è passati dal presunto diritto soggettivo alla morte, a sceglierne non solo il qui e ora ma anche il come, ad una più estesa dimensione socio-familiare di interpretare la volontà del soggetto e facilitargli la morte a prescindere dal livello di consapevolezza con cui affrontava una decisione di questa portata.
Con un approccio inizialmente cauto era partita anche la legge in Olanda, ma rapidamente, nell’arco di pochi anni ha assunto il carattere di radicalità che si può evincere dal diritto all’autodeterminazione, declinato come un assoluto. Nessuno può opporre nessuna negativa alla volontà del soggetto, per cui resta come area di forte responsabilità in chi assiste una persona che chiede di ricorrere all’eutanasia il valutare la sua effettiva capacità decisionale. Ma capacità decisionale non significa solo rendersi conto di ciò che accade qui e ora, ma anche di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e gli effetti che avranno sulle persone vicine. La vita non è un bene individuale; è sì un bene personale, ma nella prospettiva di chi ha una visione della persona in chiave relazionale. Si vive per gli altri, per le persone che si amano e per le persone nei confronti delle quali si hanno responsabilità vere e proprie. Si vive nella logica di un progetto di vita, di cui sono parte integrante non solo le difficoltà e le sofferenze, gli ostacoli e i limiti, ma anche gli affetti, i sogni e le speranze; la consapevolezza che le circostanze possano cambiare in meglio e si può scoprire una nuova energia positiva per affrontare ciò che appariva impossibile. La vita merita di essere vissuta nel suo lungo svolgersi, fatto di luci e di ombre, di successi e di insuccessi, di belle esperienze e di esperienze più faticose. Il porvi limite bruscamente non è solo un No alla sofferenza, è anche un No a tante altre possibili e bellissime cose.
Non a caso nel suo recente Documento del 22 settembre scorso, Samaritanus bonus, il papa afferma con energia: “La Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente”. La condanna della Chiesa davanti all’eutanasia è così profonda e radicale da comportare delle conseguenze che possono apparire incomprensibili a un’opinione pubblica abituata ad accoglierne il Magistero solo quando si conforma ai suoi desideri e alla cultura dominante del nostro tempo: “Non è ammissibile da parte di coloro che assistono spiritualmente questi infermi alcun gesto esteriore che possa essere interpretato come un’approvazione dell’azione eutanasica, come ad esempio il rimanere presenti nell’istante della sua realizzazione. Tale presenza non può che interpretarsi come complicità. Questo principio riguarda in particolar modo, ma non solo, i cappellani delle strutture sanitarie ove può essere praticata l’eutanasia, che non devono dare scandalo mostrandosi in qualsiasi modo complici della soppressione della vita umana”. Si tratta di un testo esigente, ma molto equilibrato, e proporzionato all’intensità dell’attività eutanasica che serpeggia nelle legislazioni dei Paesi occidentali, ma c’è anche il rischio che l’informazione mainstream, compresa quella di una parte del mondo cattolico, non accetti, o manipoli, o fraintenda la corretta e completa comprensione di un documento di tale portata.
Parlare una volta ancora dell’eutanasia, e di un qualsiasi altro ordinamento che intende disciplinarne l’accesso, significa prendere atto del fatto che la cultura della morte ha invaso la nostra stessa forma mentis; si fa sempre più fatica a cogliere il senso della dignità umana dove si fa esperienza della sofferenza, della debolezza, della malattia, del limite. Il rifiuto della sofferenza, spinto fino a ricercare la morte anche per mano di un altro, invocato come aiuto, è forse una delle note strutturali più drammatiche della cultura del nostro tempo. Una cultura bipolare che vede da un lato l’esaltazione della volontà individuale e dall’altro il rifiuto del dolore, inteso anche come rifiuto dell’insuccesso sul piano esistenziale. Si ama la vita solo se e quando è sinonimo di benessere, di salute, di successo, di realizzazione personale completa su tutti i piani. E la si rifiuta, appellandosi al proprio diritto all’autodeterminazione, quando le cose vanno in modo diverso. La Spagna, con la sua approvazione della legge, mostra di aver fatto un passo importante in questa direzione: il Sì alla vita è subordinato ai doni che la vita porta con sé; quando questi vengono meno allora l’unico sì possibile sembra quello alla morte e l’unica tutela di questo Sì è offerta dalla propria capacità di intendere e volere. Il rischio per l’Italia c’è tutto, con una maggioranza che fin dalla precedente legislatura aveva fatto di questa visione del mondo la cifra costitutiva anche del suo stile legislativo. Ambiguo quanto basta, ma pur sempre orientato al diritto a morire, come immagine estrema del proprio diritto alla libertà.
E questa, con tutta probabilità, davanti al fallimento delle politiche economiche e davanti ai perduranti effetti della pandemia, sarà la battaglia dei prossimi mesi in Parlamento.