Recentemente in Olanda è stato trasmesso un docufilm finanziato dell’emittente Bnnvara che si è fissato l’obiettivo (ingrato?) di dimostrare al pubblico da casa cosa significhi veramente morire per l’eutanasia: la – da molti – criticata pratica con cui un paziente malato può chiedere al suo medico di essere ‘accompagnato’ verso una morte priva di dolore. In totale le storie presentate nel docufilm – che colpiscono soprattutto perché sono tristemente e lucidamente reali – sono quattro: la prima è sicuramente la più forte perché presenta la storia di una ragazza 26enne che dopo sette anni di depressione si è abbandonata all’eutanasia; ma non manca neppure una madre 56enne, anche lei in preda alla depressione da tutta la vita e con una lunga storia di abusi, violenze e problemi psichiatrici ed una piccola storia di redenzione: quella di una donna 88enne affetta da Alzheimer che rifiuta la morte assistita per passare ancora un po’ di tempo con i suoi figli.



A presentare le storie – e ci arriviamo a breve – è il quotidiano Avvenire, che ci tiene anche a ricordare come in Olanda l’eutanasia sia in vigore già dal 2002 e sia strettamente regolata dalla legge: per richiederla è necessario dimostrare una profonda sofferenza (sia a causa di una malattia fisica, che di un problema psichiatrico) e l’impossibilità di vivere tranquillamente e serenamente. Possono accettare la pratica solamente il medico di famiglia, oppure lo psichiatra che ha in cura il paziente, ma il via libera è subordinato anche ad un secondo parere da parte di un esperto ed – eventualmente – dall’ulteriore opinione di uno specialista dell’associazione Scen.



Complessivamente il percorso per l’eutanasia può durare anche diversi anni nel corso dei quali – ovviamente – una qualsiasi delle parti ‘in gioco’ può ritirare o rifiutare la richiesta; mentre a livello legale la giustizia interviene solo una volta che il paziente è morto aprendo – d’ufficio – una indagine per controllare che tutte le regole siano state correttamente rispettate: singolare che nel corso degli anni siano state impugnate solamente un media di 4 o 5 pratiche all’anno, ma quasi mai si arriva ad una causa vera e propria.

Cosa ci ‘insegna’ il docufilm olandese sull’eutanasia: la sofferenza, la rassegnazione e la fine della lotta

Ma quali sono queste storie di eutanasia che il docufilm ha voluto mettere in scena? L’invito – almeno agli over 12 – è a guardare direttamente tutte le puntate – facilmente recuperabili sul sito ufficiale del’emittente cercando ‘Een goede dood‘ -; ma nel frattempo noi vogliamo dare risalto soprattutto ad alcuni (singolarmente importanti) momenti mostrati ai telespettatori come nel caso della storia della 26enne che accompagnata dal padre si sceglie personalmente il luogo in cui disperdere le sue ceneri e – tornati a casa – l’uomo evidentemente rassegnato si lascia scappare un “che bella la giornata di oggi“. Ancora più surreale (angosciante?) è il momento dell’eutanasia vera e propria: Marte – la ragazza in questione – viene accompagnata in una piccola stanzina e dopo una spiegazione da parte della sua psicologa, con la voce rotta, si fa iniettare il mix di farmaci e da lì diventa solamente un conteggiare i minuti, con i monitor medici che si fanno piatti e un “kraal” (“finito” in olandese) a suggellare il patto con la morte.



Ma anche la morte di Yvonne – la madre 56enne – offre un paio di singolari spunti come il medico che valuta il suo caso che parla di “terapia” e mai di morte assistita o eutanasia; ma anche l’evidente disagio della giovane dottoressa di famiglia alla sua prima esperienza con la morte di una paziente. Angosciante, anomalo e struggente anche il momento in cui la 56enne annuncia alla sua famiglia – durante una cena – che il giorno dopo verrà sottoposta ad eutanasia: cala il gelo, i piccoli piangono e la donna si lancia nella commovente lettura di una lettera d’addio – come se fosse il suo ultimo bigliettino prima di buttarsi dalla finestra – e si scatta una foto con i figli per decorare la sua stessa lapide.

Insomma: storie che a modo loro mettono in scena un triste spaccato della realtà di persone che sono stufe di lottare e scelgono la via (per così dire) ‘semplice’ dell’eutanasia e che – in quanto sopraffatte dal dolore – non possono essere giudicate; tanto che Avvenire parla di quel “sentimento che ci accomuna tutti, cattolici e laici: la compassione“. Ma nonostante questo – nota ancora il quotidiano – compassione non necessariamente significa “condividere la loro rassegnazione, la rinuncia alla lotta“, nonostante (e forse ancor meno) davanti ai medici che parlano di “pietà, piuttosto che convincerli a concedersi ancora un po’ di tempo” per esplorare un altro po’ – come la signora 88enne – l’affascinante mistero della vita e della morte.