La più grande utopia del nostro tempo è quella di voler cancellare il dolore dall’esistenza umana, immaginando una sorta di Eden in cui tutti debbano vivere felici e contenti. Ma l’uomo fa presto esperienza del dolore nella sua vita, in tempi e modi diversi, senza mai poter negare il potere che il dolore esercita su di lui.



Chi da anni insiste nel riproporre la strana utopia di un mondo senza dolore ritiene impossibile vivere una vita umana degna di questo nome se e quando il dolore si rivela come uno di quegli elementi strutturali che non possono essere rimossi. E quando qualcuno si rende conto che, nonostante tutto, il dolore è un compagno di strada da cui non si può prescindere, allora l’ultima frontiera per lui diventa quella di facilitare la morte di chi soffre. È la strana utopia nichilista di chi non potendo rimuovere il dolore, rimuove chi di quel dolore è protagonista e testimone.



Il senso e il significato del dolore costituiscono un tema centrale nel dibattito di questi giorni, con la pubblicazione del testo della Accademia per la Vita, che, più o meno volontariamente e intenzionalmente, offre un piano inclinato per l’approvazione della legge sull’eutanasia, attualmente in pole position al Senato.

Nella introduzione al Piccolo lessico del fine vita si mette l’accento sulle stesse parole che talora vengono utilizzate con significati diversi, con il risultato di rendere difficile intendersi non solo per la differenza delle posizioni, ma anche per la complessità dei termini. Le diverse prospettive etiche del mondo contemporaneo a un’analisi più approfondita appaiono però realmente “incomunicabili”. Non è solo questione di mantenere una discussione aperta e rispettosa, c’è un problema di fondo drammaticamente concreto e reale.



L’obiettivo è quello di giungere a un dialogo pubblico capace di influenzare anche le scelte politiche e legislative. La ricerca sincera e appassionata della verità non è solo questione di usare un linguaggio, che oggi appare spesso svuotato di senso e di significati. È prima di tutto un invito forte alla responsabilità che tutti abbiamo verso la vita di ognuno di noi. Qualcosa che ci interpella in coscienza e che non ammette ambiguità, né facili e accattivanti giri di parole; qualcosa che ha a che vedere con la Verità, i cui margini di opinabilità debbono fermarsi davanti alla drammatica realtà dei fatti con cui dobbiamo confrontarci e misurarci. Il dolore esiste, è sempre esistito e sempre esisterà, per quanto l’uomo possa cercare di mitigarlo e di renderlo più sopportabile. Sia che si tratti del dolore fisico che di quello psicologico, del dolore affettivo e di quello spirituale, fino a quel “global pain” davanti al quale Cecily Sanders vide e immaginò l’orizzonte delle cure palliative. E da allora c’è una frontiera che non può essere negata: da una parte c’è il dolore accolto e accettato, e che assume il valore del dolore salvifico; dall’altra c’è un dolore negato, rifiutato, che può portare alla disperazione, fino all’opzione irrevocabile per il suicidio, più o meno assistito. Il dolore, quando si può, si toglie; ma non si può sopprimere l’uomo per ridurne il dolore!

Oggi non si parla più del dolore: si fa di tutto per rimuoverlo, anche sul piano della ricerca scientifica, ma in realtà se ne sposta solo un po’ più in là il livello di sopportazione. Manca una vera e propria pedagogia del dolore, che aiuti a riconoscerlo, per prevenirne gli effetti secondari; non si insegna più a maneggiarlo con cura, fin a dargli un significato che permetta di convivere con lui, sapendo che impreziosisce la nostra vita.

Nella Salvifici doloris di Giovanni Paolo II, scritta oltre 40 anni fa, il Papa afferma che non si tratta solo di dare una descrizione della sofferenza. “Vi sono altri criteri, che vanno oltre la sfera della descrizione, e che dobbiamo introdurre, quando vogliamo penetrare il mondo dell’umana sofferenza … Può darsi che la medicina, come scienza ed insieme come arte del curare, scopra sul vasto terreno delle sofferenze dell’uomo … nuove terapie. Tuttavia, questo è solo un settore. Il terreno della sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e pluridimensionale … La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa” (SD, 5).

La Sacra scrittura, dice il Papa, elencando un numero infinito di possibili dolori e sofferenze, è un grande libro sulla sofferenza. Si può dire che l’uomo soffre quando sperimenta un qualsiasi male. E aggiunge: “Al centro di ciò che costituisce la forma psicologica della sofferenza si trova sempre un’esperienza del male, a causa del quale l’uomo soffre. Così, dunque, la realtà della sofferenza provoca l’interrogativo sull’essenza del male: che cosa è il male?” (SD, 7). Si tratta di un interrogativo inseparabile dal tema della sofferenza. E la risposta cristiana è diversa da quella che viene data da altre tradizioni culturali e religiose, che ritengono che l’esistenza sia un male dal quale bisogna liberarsi. Il cristianesimo proclama l’essenziale bene dell’esistenza e il bene di tutto ciò che esiste. Ed è questo ciò che il mondo cattolico vorrebbe sentirsi dire dall’Accademia per la Vita, che non a caso è un organismo della Santa Sede, in cui presidenti e partecipanti sono accuratamente selezionati perché se non alla rivelazione, facciano almeno riferimento alla legge naturale. Tutto il contrario della bagarre caotica e confusa che sta montando in questi giorni dopo la pubblicazione del Piccolo lessico del fine vita, introdotto da una serie di osservazioni di mons. Paglia, che da oltre un decennio ne è il presidente.

La lettura altamente politicizzata che se ne dà in questi giorni fa riecheggiare toni e accenti aspri e divisivi: “Cade l’alibi di una destra retriva che fino ad oggi ha bloccato una legge sul fine vita. Non una legge sull’eutanasia, dunque, ma una norma che vada incontro alle sofferenze di chi non ha speranza di poter guarire, avendo solo l’opzione di una vita afflitta dal dolore”. Quindi l’unica soluzione possibile non è l’eutanasia – parola espunta dal Piccolo lessico, perché divisiva -, ma, con una capriola linguistica degna delle migliori olimpiadi, la soluzione è quella del suicidio assistito, senza nessuna, ma proprio nessuna alternativa, neppure un trattamento vitale a scelta. Il paziente è posto a un bivio, solo davanti al suo dolore e alla sua sofferenza; viene meno la forza di quel dolore salvifico di cui tanto ha parlato Karol Wojtyła, perché tanta esperienza ne ha fatta.

Per la sinistra la mancanza di una legge è tanto più inaccettabile, perché oltre alla famosa legge sulle DAT, che appare monca, proprio perché non si spinge fino alla soglia della morte, anche la sentenza della Corte Costituzionale sembra puntare a garantire morte sicura a chi ne fa richiesta. E il Piccolo lessico sembra assecondare la certezza della morte, per evitare inutili divisioni tra parlamentari di diverso orientamento, o tra cattolici di diverse convinzioni. La pace, prima di tutto, anche a costo della vita e della verità!

Eppure, salvo i due primi presidenti dell’Accademia, laici e medici, il francese Jerôme Lejeune, di cui è aperto il processo di beatificazione, e il cileno Vial Correa, tutti gli altri sono stati vescovi ben noti nel mondo cattolico. Per il loro curriculum scientifico ed ecclesiastico: da mons. Sgreccia a mons. Fisichella, da mons. Ignazio Carrasco allo stesso mons. Paglia. E non può essere un caso se il Papa ha voluto al vertice dell’Accademia delle vere e proprie figure di pastori. Capaci di parlare a favore della vita non solo come uomini di grande cultura, ma anche come pastori capaci di orientare cattolici e non cattolici, verso un personale incontro con Dio, attraverso il mistero della vita, che si rinnova continuamente, senza poter prescindere dall’esperienza del dolore. Figure iconiche del Buon Samaritano, perché la parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della sofferenza, come dice san Giovanni Paolo II, al p. 28 della Salvifici doloris.

Ci indica, infatti, quale debba essere il nostro rapporto verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito “passare oltre” con indifferenza, ma dobbiamo “fermarci” accanto a lui. Buon Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, e quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. È come l’aprirsi di una disposizione interiore del cuore. Buon Samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza altrui, l’uomo che “commuove” per la disgrazia del prossimo. Bisogna, dunque, coltivare questa sensibilità del cuore, che testimonia la compassione verso un sofferente. A volte questa compassione rimane l’unica o principale espressione del nostro amore e della nostra solidarietà con l’uomo sofferente. La sofferenza certamente appartiene al mistero dell’uomo; è un mistero cha esprime una sua pedagogia profonda, di cui non sempre è facile cogliere il significato, ma da cui è sempre possibile farsi illuminare, senza scivolare nelle soluzioni solo apparentemente più facili e accomodanti, che con una morte anticipata, lo privano però di ogni altra possibilità di valore autentico, come la speranza e l’amore.

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