Eutanasia è parola di derivazione greca che, nel corso dei secoli, pur indicando sempre una supposta buona morte, è stata diversamente intesa. In antico ‒ presso ellenici e latini ‒ essa poteva riferirsi sia all’eroico cadere in battaglia per difendere la patria, sia al suicidio ritenuto dignitoso o onorevole (vedi Socrate o Seneca). L’imperatore Augusto, di cui si narra che morì senza soffrire, auspicava per tutti un tale exitus “indolore”, chiamandolo grecamente euthanasia.
Nell’ottica cristiana poteva esser considerata invece una buona morte quella dei primi martiri sbranati dalle fiere; e ancora in ambito cattolico, verso la fine del XVII secolo troviamo scritto nell’Encyclopédie méthodique parigina che euthanésie è detta la “mort heureuse de ceux qui passent sans douler, sans crainte et sans regret de cette vie a l’autre ou qui meurent en état de grâce” (morte felice di chi transita senza dolore, senza tema e senza rimpianto da questa vita all’altra, o chi muore in istato di grazia).
Oggi l’eutanasia indica senz’altro l’atto con cui si procura, da parte altrui, la morte di un soggetto che ne abbia fatto richiesta a seguito di una opzione consapevole e frutto di libera scelta. È opportuno però precisare che l’eutanasia, attualmente intesa, è altra cosa sia rispetto alla rinuncia/sospensione e/o rifiuto di qualsivoglia trattamento sanitario, sia alla sedazione palliativa profonda. Quest’ultima infatti comporta appunto l’impiego di farmaci sedativi (neurolettici e oppioidi) somministrati al fine di ridurre al paziente sofferenze insopportabili ed altrimenti incurabili, causate da una patologia grave o terminale.
In Italia l’eutanasia è tutt’ora vietata, mentre il cosiddetto suicidio assistito è invece non più penalmente punibile solo nei casi in cui ‒ come precisa ha precisato la Corte Costituzionale nella sentenza 242 del 22 novembre 2019 ‒ l’aspirante suicida sia una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Se quindi detto individuo, impossibilitato ad assumere in modo autonomo una qualche sostanza in grado di por fine alla propria vita, venga aiutato a fare ciò da un altro, tale forma di assistenza è ritenuta lecita.
Nel bel paese là dove ’l sì suona è dunque complesso e variegato (confuso?) il panorama riferibile alla “buona morte”. Una cosa però è certa: sta mutando la mentalità collettiva, se è vero che di recente il comitato promotore dell’eutanasia ha già raccolto abbondantemente le firme necessarie per promuovere un referendum che ne cancelli divieti e ostacoli. Il rischio però ‒ stante il fatto che l’eutanasia possa esser da parecchi intesa (vedi Umberto Veronesi) “come una espressione elevata delle nostre capacità decisionali ed è, forse, la forma più alta di libertà proprio perché riguarda la nostra vita” ‒ è quello di assistere, un domani, ad un aumento considerevole dei suicidi non solo da parte di malati terminali, ma pure di depressi o presunti tali, di annoiati/disgustati della vita, magari giovani, che l’esistenza piena ancora non hanno vissuta. Anche solo il fatto, cioè, che ci sia a portata di mano un modo rapido e indolore per attuare l’exitus può indurre infatti a scegliere (?) una tale opzione.
C’è chi obietterà: ma per l’eutanasia verranno creati protocolli ad hoc, servirà il beneplacito di esperti (medici, psichiatri), vi saranno consulti, e chi più ne ha più ne metta. Peccato che in Olanda ‒ dove dal 2020 può essere concessa l’eutanasia anche a minori di 12 anni ‒ da molti anticonformisti essa venga criticata in quanto pratica troppo sbrigativamente adottata pure in casi dove mirati trattamenti di sostegno/cura ed assistenza a livello psicologico avrebbero potuto far mutare la decisione suicidaria, specie negli anziani gravemente malati, sempre più inclini (spinti?) a scelte irreversibili.
Per non parlare di quella che Marie de Hennezel chiama la “morte rubata”, ossia quella indotta dai sanitari (medici o infermieri che siano) in caso di agonia prolungata, anche solo aumentando le dosi di morfina e/o barbiturici al morente per liberarlo dal suo grave/inguaribile patimento, spesso senza che questi ‒ magari in uno stato comatoso o semi-comatoso ‒ ne abbia fatta esplicita richiesta; o su pressione di familiari compassionevoli, decisi a non far soffrire ulteriormente/inutilmente il proprio congiunto. L’eutanasia clandestina è, insomma, pratica diffusa anche nei Paesi dove essa non è consentita.
Certo, le cosiddette cure palliative ‒ domiciliari e presso gli hospice ‒ rappresentano una alternativa alla spiccia drasticità della “buona morte”, ma i centri ove tali cure vengono elargite ‒ soprattutto nell’Italia del Sud – sono ancora pochi e non sempre di livello ottimale. Infatti non basta saper dosare antalgici, oppiodi e oppiacei per essere bravi terapeuti all’interno di un hospice. Occorre empatia, capacità di ascolto e dialogo: non appena nei confronti dei malati ma pure dei familiari, che spesso soffrono tanto quanto o persino più della persona ricoverata, specie se in stato di incoscienza. Gestire il fine vita non equivale meramente ad accelerare la morte attraverso questo o quel farmaco. Una persona prossima all’exitus resta sempre e comunque persona degna della massima attenzione e sollecitudine ‒ giusto in quanto le ore o i giorni che sta ancora vivendo sono gli ultimi ‒ e verso la quale occorre adoperarsi non soltanto con mezzi o ritrovati tecnologici. Serve vicinanza, presenza affettuosa, ad onta della supposta necessità professionale, per un medico, di essere emotivamente distaccato dai suoi pazienti.
Interessante a questo punto è notare che, anche negli stati in cui l’eutanasia è legalizzata, le statistiche ci informano come solo una minima parte di coloro che si trovano nella fase terminale d’una patologia incurabile richiede di essere uccisa (mi scuso con la crudezza del termine, ma, nonostante il suo nome soave, l’eutanasia comporta giusto un’uccisione) o di essere aiutata a sopprimersi. La maggioranza di chi si trova vicino al “passo al di là”, per dirla con Blanchot, non chiede tanto di farla finita il più presto possibile, ma piuttosto di far finire una sofferenza psicofisica, data ‒ oltre che da dolori intollerabili ‒ dallo stato angoscioso e depressivo di doversi misurare con l’impotenza, il venir meno dell’autostima, la solitudine e il senso dell’inanità di perdurare in un’esistenza grama, che sta comunque per finire.
Così interrogativo cruciale è: chi desidera ottenere l’eutanasia, che cosa chiede davvero oltre ad una scorciatoia rispetto alla propria parabola esistenziale, avvertita come non più percorribile? E se implicitamente, la richiesta o la volontà di andarsene in fretta e senza dolore mascherassero un’urgenza altra ed inespressa? Quella di essere riconosciuti ed accettati o amati nonostante il proprio decadimento/disfacimento ineluttabile, di essere accompagnati fraternamente verso una fine non gravata dalla solitudine, di poter vincere o almeno lenire l’ansia e la paura per la morte?
In fondo, poter stabilire l’istante in cui debba avvenire il nostro exitus non cela forse un vano desiderio d’onnipotenza? Come a dire: se non posso sconfiggere la morte, almeno decido io quando ha da essere! E ancora: non è che la richiesta dell’eutanasia implichi un timore e un’ansia, più o meno consci, ovvero quelli di dover patire una dipendenza totale/intollerabile dagli altri (siano essi medici, paramedici, parenti o conoscenti), di non avere più il controllo della situazione, di esser ridotti all’impotenza, alla fragilità più miserevole?
La risposta a tutti questi interrogativi potrebbe necessitare di un preventivo riesame intorno a che cosa comporti il nostro comune statuto di viventi e mortali, il quale appunto resta anche nel terzo millennio (nonostante le sue illusorie speranze di scongiurare ad libitum la fatal dipartita) all’insegna della vulnerabilità e dell’ineluttabile generale caducità. Così il bisogno di scegliere il momento del proprio exitus, di anticiparlo esercitando su di esso una sorta di gestione o controllo, può darci la sensazione di potere in qualche modo dominare davvero la morte, e non già ‒ come forse sarebbe auspicabile ‒ raggiungere quell’equilibrio che ci consenta, anche nella sofferenza insanabile, la possibilità di integrare la morte nella vita, non considerando la prima una nemica della seconda da sconfiggere, bensì una parte conclusiva dell’esistenza da vivere più che da eludere.
Sorge quindi in molti di coloro che guardano non con moralistica o aprioristica censura, ma con ponderata disapprovazione all’eutanasia l’idea che l’acconsentire a tale soluzione finale sveli una hybris, una tracotanza umana, troppo umana, quasi una specie di inquietante superomismo. Rinvenibile altresì nel rifiuto di acconsentire all’esperienza della passione (nel senso cristiano del termine) e di quanto possa comportare non solo in termini negativi il vivere sino alla fine la propria vita, trovando il coraggio di bere sino in fondo l’amaro calice che talvolta essa ci porge; tramite un affidarsi a Dio (per chi ci crede) o (per chi non ci crede) attraverso una disponibilità spirituale non sfiduciata ma pronta, quando giunga l’ora, a varcare con serenità quella porta sul mistero che la morte rappresenta.
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