La World Medical Association (Wma), che riunisce 109 associazioni mediche nazionali in rappresentanza di circa 10 milioni di medici, costituisce un punto di riferimento assoluto per la professione. Nasce nel 1947, con lo scopo di “garantire l’indipendenza della medicina da qualsiasi forma di potere, dopo l’esperienza drammatica di asservimento della scienza e della professione medica ai totalitarismi del 900”, con uno scopo preciso: la difesa della vita di ogni essere umano (non sacrificabile per nessuno altro “scopo eticamente superiore”) e la garanzia circa l’orientamento assoluto alla salvaguardia dell’uomo sofferente da parte del medico. Lo statuto della Wma , approvato a Madrid nel 1987 e ribadito ad Oslo nel 2015, afferma che “l’eutanasia, definita come ‘l’atto che deliberatamente pone fine alla vita di un paziente’, è non etica, anche se c’è la richiesta del paziente stesso o di familiari stretti”. Questo, aggiunge la Wma, “non dispensa il medico dal rispettare il desiderio del paziente di consentire che il naturale processo della morte faccia il suo corso nella fase terminale della malattia”. Non accanirsi, ma continuare ad assistere, cercando di alleviare la sofferenza, questo il compito del medico, cosa assai diversa dal procurare la morte.



Anche la Federazione nazionale dell’ordine dei medici, ribadisce in modo netto la stessa posizione all’interno del proprio Codice deontologico (aggiornato nel 12/2018), che all’articolo 17 afferma: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Gli interventi, in questi giorni, dopo la decisione della Corte Costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo, dei responsabili delle associazioni mediche, hanno ribadito con nettezza questa posizione, sino ad indicare un conflitto reale tra Codice deontologico professionale e l’eventuale legge. Perché?



Da Ippocrate in poi (“non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale… in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario e da ogni azione corruttrice sul corpo degli uomini o delle donne, liberi o schiavi”), la relazione che lega il medico al suo paziente è stata fondata sulla sua “natura solidale”, orientata alla tutela della vita della persona ed al tentativo di alleviarne la sofferenza legata alla malattia, indipendentemente da fattori o circostanze esterne (potere, censo, etnia o cultura, gravità della patologia o possibilità di guarigione).



Questo “imperativo categorico”, totalmente laico, che guida la professione medica, ne determina ancora oggi il fascino (si inizia a pensare di “fare medicina” per questo!) ed il suo valore sociale. Il dr. De Coppi, chirurgo italiano del Great Osmond Street Hospital di Londra, coinvolto nella cura di due gemelle siamesi senegalesi (Marieme e Ndeye) ha detto: “Noi esistiamo per salvare la vita non per uccidere (…) L’intervento ci avrebbe obbligato a sacrificare una delle due gemelle. Non ce la siamo sentita, abbiamo rispettato il desiderio della famiglia. Non abbiamo richiesto al giudice di togliere la patria potestà ai genitori, sono loro che dovranno vivere con le gemelle. Ripeto non è un problema tecnico, siamo tutti padri di figli che amiamo”.

È questo compito “aggiuntivo” che rende ragione di un antico (ma sempre più vero) detto popolare: che per fare il medico occorra una “vocazione”, cioè una disponibilità ulteriore (oltre la “tecnica”) ad entrare in rapporto con la persona malata, a condividere con lui le difficoltà del momento, in qualche modo a soffrire lui, in una prospettiva di un bene maggiore.

Chi fa il medico così, cattolico o no, non potrà mai uccidere un altro uomo.

Il grande medico (oltre che santo) Giuseppe Moscati, pose nella sala anatomica dell’Ospedale “Gli Incurabili” di Napoli questo motto: “Morte sarò la tua morte” (“Mors ero tua mors”) per ricordare a se stesso ed ai suoi allievi la grandezza della professione, ed insieme la necessità di dover sempre, per combattere il limite umano, infondere al malato una indispensabile speranza: che la malattia e la morte non sono l’ultima parola sulla vita dell’uomo.

La recente decisione della Consulta, che ha avvallato un’esasperata ed irrealistica concezione dell’autonomia del paziente, sino ad invocare una legge sul suicidio assistito e sull’eutanasia (affidandone la “applicazione” ai medici), dimostra di non comprendere la natura profonda e solidale della professione. Il tentativo di eliminare la drammaticità della vita e le domande che essa suscita, soprattutto in determinati frangenti, è illusorio: non è diventando “padroni dell’ultima ora” per legge che si attutisce il dramma per il malato, anzi spesso diventarne “padroni” consente solo un’estraneità ed una solitudine disumane.

Ogni medico ed ogni malato sanno bene, al contrario, che anche nelle “battaglie” che si perdono, c’è qualcosa che “vince” il limite: l’accoglienza, la condivisione, l’amore, la fraternità. Il nostro lavoro quotidiano suggerisce che l’aspetto più sistematico che definisce la condizione umana non è tanto quello di essere “segnata” da un limite invalicabile, la morte, di cui la malattia ed il limite fisico sono come un segno. Esiste un altro dato, assai più evidente: la domanda, il desiderio di “guarire”, o in qualche modo, superare, e vincere tale limite. La domanda, cioè, che tale limite non definisca completamente ciò che siamo.

È questo grido, spesso inespresso e sempre implicito, che lega il medico al malato, ed il malato all’altro malato, che rende ragionevole ed affascinante tutto quello che oggi facciamo: assistenza, ricerca, utilizzo della tecnologia. Chi ha deciso di morire (mistero e paradosso della libertà che definisce l’umana condizione) non ha bisogno del medico. Al contrario, ogni medico deve avere la certezza che il malato veda in lui un uomo che ha scelto, per vocazione, di combattere la sofferenza e la morte.

Solo una professione “forte” perché consapevole del proprio compito, potrà continuare a rispondere in modo integrale, cioè professionale ed umano insieme, ai bisogni dei malati.

Per questo i medici non sentono il bisogno né la necessità di una nuova legge (né del Governo né della Consulta), essendo la relazione tra loro ed i pazienti, già adeguatamente normata dal codice deontologico, punto di riferimento autorevole e forte della professione, e qualunque decisione verrà presa in sede legislativa sarà obbligatorio prevedere l’esercizio dell’obiezione di coscienza.