Poche sono le righe del comunicato stampa che annuncia la decisione della Corte Costituzionale sull’aiuto al suicidio. Da oggi il suicidio assistito è lecito, si legge pressoché ovunque. E non si va oltre. Tanto basta: un nuovo passo verso la libertà, la libertà di morire.
Le righe che sono uscite dal Palazzo della Consulta, in realtà, tentano di dire anche altro e lasciano trasparire alcuni elementi che consentono qualche breve commento. Quando l’opinione pubblica avrà dimenticato, allora si apriranno le discussioni etiche e giuridiche su questo tremendo tema, la fine della vita, evento ineluttabile, che resta sepolto sotto le macerie della dimenticanza o che si tollera per tramite dell’illusione (o forse della speranza) che esso possa tornare sotto il nostro controllo, sotto il controllo della nostra volontà. Per ora abbiamo solo queste righe e la valanga di titoli con l’inno alla libertà e al progresso ma anche qualche caveat che esce dai comunicati dell’ordine dei medici.
In breve, la sentenza della Corte Costituzionale che rende lecito – in alcuni specifici casi – il suicidio assistito, ruota tutta intorno al caso di Dj Fabo e di chi lo ha aiutato, Marco Cappato. Costui, dopo aver accompagnato l’amico in Svizzera, si è autodenunciato affinché la questione di costituzionalità dell’art. 580 del codice penale (che sanziona con una pena che va dai 5 ai 12 anni “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”) possa essere messo sotto il vaglio di un giudice.
Ne agevola: questa parte della norma era già stata considerata potenzialmente incostituzionale dalla Corte in un precedente intervento – quello in cui, esponendo il suo pensiero in materia – aveva dato un anno di tempo al Parlamento per provvedere a rendere tale norma meno rigida, meno assoluta. E infatti – sempre secondo la Corte – vi sarebbero casi estremi, casi limite, in cui tale “agevolazione” avrebbe dovuto essere tollerata ed esentata dalla sanzione.
Quali casi? Qui la vicenda del Dj Fabo viene sostanzialmente riproposta e riprodotta, quasi un racconto, una narrazione: un paziente, pienamente capace di intendere e volere, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, può essere “agevolato” nel suo proposito suicida. La coincidenza con il caso è pressoché totale: tutti ci siamo commossi per il suo destino, tutti abbiamo partecipato al suo dramma, forse anche pensato che chi lo ha “agevolato” abbia fatto il suo bene, compiuto il suo desiderio, dato forma alle sue ultime volontà. A quel capezzale c’eravamo tutti e abbiamo vissuto o rivissuto con lui il viaggio, la camera della clinica, le sue ultime parole, financo i suoi ultimi pensieri, i suoi cari, la sua pace. Si narra così la dolce morte, che ha uno sfondo di bene, di affetti sinceri, di pena mitigata dal pensiero di aver fatto quello che l’altro o l’altra desiderava e che tutti desideriamo: che la morte sia dolce, che la terra ci sia lieve.
Dopo aver riproposto davanti ai nostri occhi questa vicenda, la Corte ricorda che, tuttavia, questo “aiuto” ha delle condizioni affinché sia pienamente lecito: deve essere fornito dal servizio sanitario nazionale, occorre che le condizioni personali del paziente siano “accertate”, che vi sia il parere di un Comitato etico “territorialmente competente”. Occorre che il Parlamento si pronunci, perché queste condizioni non si possono creare con sentenza ma solo suggerire e, mentre si attende che il Parlamento legittimi, i giudici dovranno decidere tenendo conto di quanto ha detto la Corte (un effetto parzialmente retroattivo? Oltre il caso singolo? Anche su questo discuteremo).
E, infine, il comunicato stampa ricorda (sempre riportando in sintesi la decisione della Corte, che leggeremo) la necessità di rispettare la normativa esistente sul consenso informato, sulle cure palliative tra cui anche la possibilità della sedazione profonda, che – detto per inciso – avrebbe certamente aiutato Dj Fabo a uscire dalla sua tragica situazione, ma, come dice la Corte, non avrebbe evitato ai suoi cari l’attesa, pur breve ma sempre indeterminabile, della morte e quindi non sarebbe stata conforme ai suoi veri desideri.
Un caso, dunque, e una sentenza, in gran parte modellata sul caso, sul caso limite, il paradigma che dovrà essere poi riprodotto dal legislatore o che farà da esempio per le sentenze dei giudici.
Saranno tutti così chiari e incontrovertibili i casi futuri? Si potrà contenere il fenomeno dell’eutanasia, che si profila dietro l’orizzonte e che è già realtà in alcuni ordinamenti? Come reagirà il legislatore, già inondato dai progetti di legge semplicemente eutanasici, senza condizioni e senza procedure, se non le solite procedure sbrigativamente burocratizzate? Queste sono le domande che possono accompagnare le riflessioni future su questo tema: impossibile infatti che una sentenza possa togliere di mezzo il dramma della vita e della sua fine, la tensione ad eliminare la sofferenza ma non ad eliminare chi soffre, materialmente e psicologicamente.