L’appuntamento con Papa Francesco era nella sala Clementina e il clima di aspettativa era decisamente quello delle grandi occasioni. Sarebbe stata la prima volta, dopo la pubblicazione della sentenza sul suicidio assistito, o come molti si ostinano a chiamarla, sull’eutanasia, che il Papa interveniva in un consesso di avvocati e magistrati, di medici e di professori universitari, per lo più membri o simpatizzanti del Centro studi Rosario Livatino. Un’associazione di giuristi che studia temi riguardanti il diritto alla vita, la famiglia e la libertà religiosa, intitolato al “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia a 38 anni e che la Chiesa si prepara a proclamare beato, essendosi già conclusa la fase diocesana del processo.



Francesco è stato come al solito sobrio nelle parole, chiaro nell’esposizione del suo pensiero e netto nel giudizio: “È privo di qualsiasi fondamento giuridico il cosiddetto ‘diritto di morire’ sostenuto da alcune sentenze in Italia e in altri ordinamenti democratici. È frutto di una giurisprudenza che si autodefinisce creativa”. 



Richiamando le parole di Rosario Livatino, il Pontefice ha criticato con fermezza “lo sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti ‘nuovi diritti’, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”. 

Il Papa ha fatto proprie le affermazioni di Livatino, pronunciate in occasione di una conferenza stampa, in cui il giovane magistrato cercava di rispondere alle preoccupazioni di un parlamentare del suo tempo sulla possibile introduzione dell’eutanasia come presunto diritto. In quella occasione Rosario Livatino affermava che: “Se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare o interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni ‘indisponibili’, che né i singoli né la collettività possono aggredire”.



Il riferimento di Papa Francesco alla legge naturale colloca l’eutanasia in uno spazio in cui credenti e non credenti possono facilmente convergere e restituisce al diritto positivo l’obbligo di legiferare in sintonia con il diritto naturale che lo precede e lo presuppone. Non è alla fede che il Papa ha fatto riferimento ma alla ragione, e per non lasciare dubbi di sorta ha aggiunto: “Queste considerazioni sembrano distanti dalle sentenze che in tema di diritto alla vita vengono talora pronunciate nelle aule di giustizia, in Italia e in tanti ordinamenti democratici. Pronunce per le quali l’interesse principale di una persona disabile o anziana sarebbe quello di morire e non di essere curato; o che – secondo una giurisprudenza che si autodefinisce ‘creativa’ – inventano un ‘diritto di morire’ privo di qualsiasi fondamento giuridico, e in questo modo affievoliscono gli sforzi per lenire il dolore e non abbandonare a sé stessa la persona che si avvia a concludere la propria esistenza”.

Ecco una chiave interpretativa che solleva molti dubbi sulla recente sentenza della Corte costituzionale, che non parla certo di diritto a morire, ma apre la strada al perfetto capovolgimento della relazione di amicizia e di solidarietà, giustificando a priori chi aiuta un altro a morire, facilitandone le procedure necessarie, senza dover neppure interpellare gli obblighi della propria coscienza o della deontologia. Basta che il paziente lo chieda e che sia convinto e determinato a ricorrere al suicidio, perché non riesce più a sopportare le sue sofferenze e il suo dolore.

Ma in questo modo, come ha ben evidenziato il Papa, si affievoliscono gli sforzi per lenire il dolore e per quanto si enfatizzi il valore delle cure palliative, alla fine si priva il paziente della risorsa più preziosa, quella dell’accompagnamento, e lo si abbandona a sé stesso, ai suoi fantasmi e alle sue paure. Alla paura di soffrire e alla paura di essere un peso eccessivo per gli altri, che potrebbero abbandonarlo da un momento all’altro. Dolore e solitudine sono le precondizioni che spingono una persona ad immaginare di por fine alla propria vita e Francesco, rivolgendosi ai magistrati, le ha stigmatizzate dicendo che “Decidere è scegliere; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio”. Il suo pensiero era contestualmente rivolto a Rosario Livatino, e ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II ad elevarlo alla dignità di “martire della giustizia e indirettamente della fede”, ma anche alla platea particolare che lo stava ascoltando nella Sala clementina. 

Per il Papa, Rosario Livatino ha testimoniato “quanto la virtù naturale della giustizia esiga di essere esercitata con sapienza e con umiltà, avendo sempre presente la dignità trascendente dell’uomo”, che rimanda “alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella ‘bussola’ inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato”.

Una lezione breve ma di altissima tensione morale quella che il Papa ha voluto offrire oggi (ieri, ndr) ai tanti magistrati ed avvocati convenuti per ascoltarlo, ricordando loro che esiste un diritto naturale che va applicato; che esiste la virtù naturale della giustizia, ma va praticata con sapienza ed umiltà; e infine che nel cuore dell’uomo, nella sua coscienza, risiede la capacità di distinguere tra il bene e il male.

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