Non si deve sapere. Vietato diramare la notizia. Per legge, per decreto dei giudici, un fatto evidentemente increscioso deve essere occultato, le persone coinvolte restare anonime, il luogo taciuto. Si tratta della drammatica vicenda di S.T., una ragazza di 19 anni affetta da una malattia rara che per quanto grave e inguaribile non ha intaccato la sua lucidità mentale e non le ha affatto tolto la volontà di lottare per rimanere in vita fino all’ultimo istante: “voglio morire cercando di vivere” ripeteva. Ma il suo grido è stato inascoltato, peggio ancora, è stato sopraffatto dalla voce prepotente di chi, in nome della Giustizia, ha decretato per lei una sentenza di morte senza appello.
Già i medici dell’ospedale del servizio sanitario inglese, che si erano occupati del caso (S.T. era affetta da una anomalia del Dna mitocondriale) avevano incanalato le loro decisioni terapeutiche nel vicolo cieco che non concede alternative al protocollo eutanasico: come accaduto nei noti casi dei piccoli Charlie Gard, Alfie Evans, Pippa Knight, morti in seguito alla sospensione dei trattamenti vitali decisa da un ospedale e avallata da un giudice contro il parere dei genitori, anche per S.T. l’eutanasia è stata imposta oltre ogni rispetto della libertà.
Per la diciannovenne, più che mai determinata e tenace nel far valere il suo diritto alle cure, la battaglia legale con il servizio sanitario nazionale è stata dura: S.T. aveva lottato a lungo per ottenere il permesso di andare all’estero per un trattamento sperimentale, ma questa opportunità, che avrebbe forse potuto salvarle la vita, è stata negata da un’ostinata opposizione.
Come oggi si rileva nella documentazione raccolta dall’associazione Christian Concern, che ha accompagnato la giovane lungo la travagliata odissea, per oltre sei mesi un’ordinanza della Corte di protezione aveva impedito alla paziente di raccogliere fondi per recarsi in Canada e partecipare a una sperimentazione clinica di un trattamento nucleosidico all’avanguardia.
Era un ultimo sogno quel desiderio di vita umanissimo, vissuto nella consapevolezza di un futuro forse breve, fragile come un filo sottile che da un momento all’altro avrebbe potuto spezzarsi, o forse avrebbe resistito prolungando il tempo di ore, di giorni… di anni. Il sogno che pulsava nei pensieri di S.T., che pur era cosciente della gravità della sua patologia, aveva grandi ali: “voglio morire cercando di vivere” ripeteva, senza prevedere la negazione di un diritto elementare, di decidere di andare incontro alla morte cogliendo la possibilità di aggrapparsi a un’imprevista ma reale àncora di salvataggio. Ma il potere della legge si è rivelato più forte della sua libera decisione: S.T. è stata ritenuta dal giudice Roberts “incapace di prendere una decisione da sola in relazione al suo futuro trattamento… perché non crede alle informazioni che le sono state fornite dai suoi medici”.
L’epilogo della vicenda era ormai segnato: S.T. è morta nella tarda serata di martedì scorso 12 settembre. Una morte che porta l’impronta di una violenza, di un sopruso che l’ha resa anonima, inabissata in un totale silenzio, destinata almeno per ora a scomparire nella dimenticanza. Almeno fino a quando la famiglia di S.T. – sostenuta dal Christian Legal Centre – si presenterà all’udienza presso la Corte di Tutela per chiedere l’abolizione delle restrizioni alla denuncia e che venga concesso loro il diritto di raccontare la propria storia.
Una storia che comunque già oggi, scarna di dati precisi così come l’abbiamo ricevuta, non può non evocare tempi bui e orrori da scongiurare, non può scivolare fra le cronache senza suscitare un sobbalzo di indignazione e di allarme. È rischiosissimo restare indifferenti e inerti, sordi e muti dopo aver intercettato il grido di S.T. soffocato dall’arroganza dispotica di chi pretende di possedere la vita altrui in nome di una supremazia della Scienza.
Del resto non è casuale la cortina di nebbia impenetrabile attorno a una vicenda in cui l’essere umano è ridotto a oggetto, annientabile, misconosciuto nella sua alterità e libertà, insomma una prospettiva terrificante e totalitaria, tanto da richiedere di restare piombata nella rigida riservatezza, inaccessibile, possibilmente rimossa persino dalla coscienza personale e collettiva.
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