Una lunga lettera della Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio), quella presentata ieri presso la Sala stampa vaticana. Dal titolo Samaritanus bonus: Sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, il corposo e robusto documento dottrinale e pastorale consta di cinque capitoli (l’ultimo articolato in dodici paragrafi), racchiusi da una introduzione e una conclusione, e con un apparato di novantanove note di citazione. Porta la firma del prefetto, il cardinale gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer, e del segretario della Congregazione, l’arcivescovo Giacomo Morandi, entrambi nominati da papa Francesco, che ha anche approvato il documento il 25 giugno scorso e ne ha ordinato la pubblicazione.



Nessuno può ragionevolmente dubitare che il testo rifletta direttamente il pensiero di Francesco sul delicato e decisivo tema antropologico, etico, sociale, giuridico e politico che va sotto il nome di “fine vita” e che appartiene di fatto e di diritto al magistero del pontefice argentino.

In estrema sintesi, la Lettera dice tre “sì” e tre “no” con un peso specifico notevole e di tutta rilevanza per il dibattito in corso da anni su questo tema, che ha visto anche incredibili interpretazioni e illazioni speculative su un (impossibile) mutamento della posizione della Chiesa cattolica rispetto all’eutanasia, al suicidio medicalmente assistito, alla sospensione dei supporti vitali e alla cosiddetta “sedazione profonda”.



I tre “sì” sono:

(1) quello alla doverosa rinuncia al cosiddetto “accanimento terapeutico” (nel significato originale e autentico del termine: “ostinarsi nel praticare terapie inappropriate” rispetto allo stato clinico del paziente e perfino onerose e dannose per lui; e non, invece, in quello surrettizio di “prosecuzione delle cure fisiologiche essenziali” per le funzioni vitali del malato);

(2) quello alle “cure palliative” (in riferimento all’assistenza non strettamente terapeutica – di natura medico–infermieristica, psicologica, spirituale e sociale – rivolta a migliorare e accompagnare la vita del paziente inguaribile e del disabile cronico grave, ma senza, in alcun modo, porre in essere azioni od omissioni volte ad abbreviarla intenzionalmente);



(3) quello alla “sedazione” farmacologica, limitatamente ai casi in cui questa si renda necessaria per alleviare il dolore incoercibile e non sia la condizione scelta intenzionalmente per sopprimere la coscienza neuropsicologica prima di attuare un protocollo clinico volto a causare la morte del paziente.

I tre “no” riguardano:

(1) l’eutanasia, intesa come ogni azione od omissione che di sua natura e nelle intenzioni di chi la decide, la attua o la consente conduce alla morte anzitempo del malato o del disabile grave in qualunque stadio della sua vita post–natale: dal neonato e dal bambino affetti da malattie congenite inguaribili all’adulto con una grave patologia cronica o degenerativa per la quale non esiste una terapia efficace, sino al paziente in fase terminale di malattia, all’anziano non più autosufficiente fisicamente e cognitivamente e a chi si sta avvicinando alla morte;

(2) il “suicidio medicalmente assistito”, in tutte le situazioni e condizioni in cui si può presentare la richiesta da parte del paziente stesso, sia essa contestuale o pregressa (la cosiddetta “disposizione anticipata”), condivisa o non condivisa da congiunti, medici, infermieri, legali e altri soggetti coinvolti nella decisione;

(3) la sospensione di idratazione e nutrizione nei soggetti in “stato vegetativo” o “di minima coscienza” e in altre condizioni assimilabili a queste per cronicità e inguaribilità, per le quali la somministrazione di acqua, elettroliti e sostanze alimentari risulta efficace nel mantenere le funzioni fisiologiche vitali e l’omeostasi del corpo.

Le ragioni che portano a questi “sì” e a questi “no” ruotano attorno a due pilastri antropologici, clinici, etici e giuridici. Da una parte, il valore fondamentale e il bene irrinunciabile della vita umana che – come scriveva San Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae più volte citata nella Lettera della Congregazione – “è sempre un bene”. “Il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico”, afferma Samaritanus bonus. “Così come non si può accettare che un altro uomo sia nostro schiavo, qualora anche ce lo chiedesse, parimenti non si può scegliere direttamente di attentare contro la vita di un essere umano, anche se questi lo richiede”.

Togliere la vita ad un malato che chiede l’eutanasia non significa – come spesso si sente affermare – “riconoscere la sua autonomia e valorizzarla”, ma, al contrario, vuol dire “disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita”. In questo modo si “decide al posto di Dio il momento della morte”. Per questo, prosegue la Lettera, “l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore”.

Il secondo pilastro delle argomentazioni del documento è quello della fondamentale distinzione medico–infermieristica, clinica, antropologica ed etica tra “curare” e “guarire”, tra “prendersi cura” (in inglese “care”) della vita integrale di un ammalato e “fare terapia” (nel linguaggio anglosassone spesso indicata come “cure”) per cercare di sconfiggere o almeno di contrastare la malattia di cui il paziente soffre.

La “cura” – il cui esempio evangelico, l’azione del buon samaritano (cf. Lc 10, 29-37), dà il titolo alla Lettera –, è il primo e fondamentale atto del medico e dell’infermiere, che precede, accompagna e sostituisce (nei casi e nelle circostanze in cui ogni altra azione clinica risulta essere inappropriata) gli atti della diagnosi, della terapia e della riabilitazione. Atti medici e infermieristici che, purtroppo, ancora oggi non portano in ogni caso alla “guarigione”. “Guarire se possibile” il malato e il disabile, usando mezzi terapeutici (distinguibili formalmente e materialmente da quelli curativi) proporzionati nei loro effetti benefici per il paziente e che non causano a lui sofferenze troppo gravose. Ma, al contempo, “avere cura sempre” di ogni malato, anche quando non è praticabile o deve venire sospesa la terapia.

Non si può non riconoscere che l’enorme incremento del numero e dell’efficacia ed efficienza dei mezzi terapeutici a disposizione, e la quasi esclusiva concentrazione del pensiero e dell’azione di medici (sin dalla loro formazione universitaria di base e specialistica) e dei parenti su procedure e protocolli terapeutici considerati di “successo”, hanno progressivamente obnubilato clinicamente ed eticamente la “cura degli inguaribili” che era all’origine della medicina, quando per pochissime malattie esisteva un rimedio efficace e ci si doveva fare carico comunque del malato.

Anche oggi non tutte le malattie sono guaribili, ma tutti i malati sono curabili. La conseguenza, denunciata dalla Lettera, è che si è creata una nuova categoria di malati e disabili, gli “incurabili” (al posto degli “inguaribili”), quelli per cui non si vogliono impegnare risorse umane, strutturali e finanziarie per assisterli in quanto segnati da una vita considerata “indegna” di essere vissuta perché priva di sufficiente salute e di “qualità” desiderabili secondo la pubblica opinione o gli operatori sanitari.

Dalla ragionevole, giusta rinuncia alle terapie futili, quelle che non giovano alla salute e configurano un deleterio, inaccettabile “accanimento terapeutico”, si è progressivamente passati – quasi senza che ce ne si accorgesse, sia da parte degli operatori sanitari che dei parenti dei malati, della società civile e della politica assistenziale – all’abbandono della cura essenziale, irrinunciabile perché sostiene le funzioni fisiologiche indispensabili per la vita di un ammalato così come quella di un sano, e che allevia il dolore, favorisce le relazioni familiari e sociali ancora possibili per il malato o il disabile grave e rende possibile anche la coltivazione del senso religioso che è nell’uomo.

Questi i punti fermi della Lettera, che si pone in continuità con tutto il magistero precedente e quello attuale di papa Francesco, riproponendo e ribadendo la posizione irrinunciabile della Chiesa in materia di “fine vita” terrena. Posizione che nessun protocollo clinico, nessuna legge o decreto e nessuna sentenza giudiziaria può scalfire, e che deve essere testimoniata e difesa da ogni credente anche attraverso il ricorso – qualora se ne presentasse la necessità come extrema ratio – alla “obiezione di coscienza” contro leggi e disposizioni ingiuste che “non creano obblighi per la coscienza” e “sollevano un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse”, perché il “medico non è mai un mero esecutore della volontà del paziente” e di quella del legislatore o del giudice e conserva sempre “il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi al bene morale visto dalla propria coscienza”.

“La Chiesa – afferma la Lettera – ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo” che ogni forma di eutanasia (incluso il suicidio medicalmente assistito, ossia l’eutanasia di un richiedente la morte) “è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente”. Siamo di fronte ad “un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza. La Chiesa in passato ha già affermato in modo definitivo ‘che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale. Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell’omicidio’ (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae). Qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata ad un tale atto è un peccato grave contro la vita umana: ‘Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità’ (Congregazione per la Dottrina della Fede, Iura et bona). Dunque, l’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica)”.

Di fronte a questo insegnamento autorevole e definitivo – la nota n. 30 della Lettera ricorda che “è una dottrina proposta in modo definitivo nella quale la Chiesa impegna la sua infallibilità: cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei, 29 giugno 1998” – ci si augura che cessino le sterili (e a volte anche polemiche) diatribe tra medici cattolici intorno a ipotetiche interpretazioni e posizioni individuali che non coltivano l’amore alla realtà del bene del paziente che la ragione rende evidente attraverso l’esperienza umana e clinica e la fede illumina in una prospettiva cristiana, ma, al contrario fomentano una divisione che non è di testimonianza al Vangelo della vita che si incarna nella comunità ecclesiale che coltiva e valorizza la sua tradizione attraverso il magistero.