C’è un dato indiscusso nella storia mondiale del pop/rock e cioè che la maggior parte dei protagonisti più celebrati di questa storia facciano parte del genere maschile. Quando si parla dei detentori della maggior parte dei successi che hanno attraversato la musica della seconda parte del Novecento, si parli di gruppi, cantautori o semplicemente interpreti difficilmente ci verrebbero alla mente, così immediatamente, personaggi femminili.
Nell’America della triade rock folk rock, tra i nomi di donne che hanno lasciato un segno indelebile, ricordiamo Carole King, Joan Baez, Janis Joplin e Jony Mitchell (un quartetto di splendide coetanee nate all’inizio degli anni ’40). Un altro nome dell’epoca, icona della swingin’ London, Dusty Springfield, dalle fortune altalenanti. E ancora, le ladies della black music Aretha Franklin e Nina Simone; e poi le più drammaticamente controverse Whitney Houston e Amy Whinehouse.
In tempi più recenti Celine Dion e le showgirl Madonna, Beyonce e Lady Gaga, giusto per ricordare le più importanti titolari di long seller, senza dimenticare le record women Adele e Taylor Swift.
Nell’età d’oro del pop italiano le interpreti che più hanno avuto la possibilità di esprimersi compiutamente, e cioè l’inossidabile Mina. l’elegante Vanoni, la sperimentatrice Ruggiero, l’attivista Mannoia, la cantautrice Nannini, oltre a Patty Pravo e Mia Martini, hanno attraversato con successo diverse stagioni artistiche. Fino ad arrivare alle nuove generazioni con Elisa, Pausini, Emma, Annalisa, Amoroso, Giorgia.
E proprio quest’ultima è stata oggetto di una polemica post-Sanremo innescata da un intervento telefonico di Mogol durante una trasmissione radio Rai. Lo storico paroliere di molti dei successi del pop italiano e del cantautorato più celebrato si è permesso di giudicare la performance vocale di Giorgia nelle serate festivaliere: “Giorgia ha una voce meravigliosa, ma forse canta un po’ ‘troppo’ e quindi la trovo meno credibile. Si può cantare facendo ascoltare la voce e si può cantare per comunicare, nel mondo adesso si canta per comunicare”.
Riflessioni discutibili, ma legittime. Tanto più espresse da un “guru” della discografia nazionale che di artisti, nella sua attività di autore e produttore, per più di mezzo secolo, ha avuto modo di accompagnare la carriera.
Invece, nel perfetto stile “sloganistico” del quale è affetta la comunicazione odierna (non solo musicale), si è ritenuto il giudizio di Mogol alla stregua di un’offesa, una sorta di mancanza di rispetto, quasi un reato di lesa maestà verso Giorgia; una levata di scudi a sua difesa organizzata da una pletora di opinionisti, più o meno autorizzati che si sono divertiti a “scherzare” (eufemismo) il “Grande Vecchio”, mettendolo alla berlina davanti al pubblico, questa volta non pagante.
Fortunatamente, la polemica è durata lo spazio di un mattino. Anche se, uscendo dagli immancabili luoghi comuni, abbiamo l’impressione che gli appunti di Mogol abbiano toccato un nervo scoperto, abbastanza dolente, che riguarda le qualità interpretative dell’ultima generazione delle cantanti del nostro mainstream, e cioè, che non basta essere intonate, avere una bella voce e contemporaneamente avere il diritto di urlare i ritornelli con tutto il fiato che si ha nei polmoni. Interpretare vuol dire lavorare sulle sfumature e sulle modulazioni vocali, che però, da un po’ di anni a questa parte, sembrano un po’ abbandonate.
Sarebbe antipatico (e un po’ arrogante) fare dei nomi precisi ma un certo modo di cantare in modalità urlo, con noioso effetto monocorde o insistere sul “birignao” alla Whitney Houston, oltre che ad essere poco originale e spersonalizzante, pur in presenza di belle voci, come afferma Mogol, comunichi poco.
È un effetto omologante, che non ammette cambi di registro nel porgere la frase musicale (nel campo maschile, succede con il gruppo de “Il Volo”). D’altronde, proprio a Sanremo, introducendo la cover di “Skyfall” da parte di Giorgia e Annalisa, Geppy Cucciari con il suo proverbiale puntuto umorismo ha avvertito gli spettatori, prima dell’esibizione, di togliere tutta la cristalleria davanti ai televisori. Insomma, come recitava un vecchio spot: “La potenza è nulla senza controllo”.
Quindi, se si volesse ascoltare una voce che ci inviti ad apprezzare la bellezza della varietà dei timbri femminili, quale alternativa avremmo? Qui si vuole consigliare un nome non famoso ma che sicuramente può soddisfare il nostro desiderio: si tratta della cantante americana Eva Cassidy.
Un nome che in Italia, se non per chi segue le vicende della popular music “a stelle e strisce”, dice ben poco, eppure se fosse stata più fortunata sarebbe sicuramente diventata una numero uno riconosciuta dal grande pubblico.
Infatti la Cassidy morì ad appena 33 anni, nel 1996, per una forma aggressiva di melanoma, proprio all’inizio della sua carriera, con all’attivo solo due dischi in studio, ma con una conferma inevitabile attraverso la pubblicazione postuma di ben otto album dopo la sua scomparsa, conquistando la critica che la ha annoverata tra le più grandi interpreti del pop mondiale.
Specializzata in cover, attraversando il repertorio di tutto lo spettro musicale del secondo Novecento e modulando efficacemente la sua voce tra ritmi e melodie dal jazz al blues, dal country allo swing alla pura ballata pop, Eva Cassidy ha dimostrato una incredibile duttilità di timbri con una naturalezza straordinaria.
Questa capacità è stata documentata in due live superbi: “Nightbird”, registrato pochi mesi prima di morire nel Gennaio 1996 al Blues Alley jazz club in Washington DC (pubblicato integralmente nel 2015 in un doppio cd) e, uscito da qualche settimana, “Walkin’ after midnight”, la registrazione di un altro splendido live alla fine del 1995 alla King of France Tavern di Annapolis nel Maryland.
Se nel jazz club a sostenere le interpretazioni della Cassidy, in un repertorio piuttosto vasto dallo swing di “Cheek to cheek” al soul di “Chain of fool”, dal jazz di “Caravan” alle ballate pop sempreverdi di” Fields of gold”, “Bridge over troubled water”, “Time after time”, c’è un’orchestrina di chitarre, basso, batteria e tastiera, nella pubblicazione più recente possiamo godere dell’ottimo apporto di un trio affiatato di chitarra elettrica, basso e violino, oltre naturalmente alla stessa interprete alla chitarra acustica.
Ancora cover splendidamente interpretate, tutte da segnalare fra traditional e standard , l’amatissima Ain’t no sunshine di Bill Whiters, per l’ennesima volta da brivido. E alla fine un omaggio al capolavoro degli Eagles “Desperado” con un languido Hammond in solitaria a sostenere l’empatica atmosfera.
Non si esagera a considerare l’intero concerto un’ora di “bellezza” regalata ad un pubblico che viene colpito nel profondo del proprio cuore e nell’anima fino alla commozione, tanta è la passione e la bravura che Eva Cassidy testimonia con una naturalezza e una semplicità coinvolgente.
Va da sé che Mogol, nella critica a qualche interprete italiana, forse abbia delle buone ragioni…
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