Il caso Evergrande, il crack del più grande fondo immobiliare del mondo, non solo scuote i mercati finanziari globali, ma aggiunge ulteriore benzina al fuoco dell’incertezza e della sfiducia, soprattutto nei confronti della Cina, che si scopre gigante d’argilla. Che cosa intende fare Pechino per cercare di risolvere questa situazione? E perché non ci si è mossi prima? Che problemi pone Evergrande al colosso cinese? I numeri in gioco, in effetti, fanno paura: “Il caso è effettivamente molto grande – spiega Francesco Sisci, giornalista, sinologo, già inviato de La Stampa a Pechino e attualmente opinionista per tv europee e americane -: si parla di oltre 300 miliardi di dollari di debito, circa il 3% del Pil, qualcosa che in Italia sarebbe pari a un crack da 60 miliardi di dollari. Inoltre c’è oggettivamente un effetto sfiducia sull’intero mercato immobiliare, che è stato fino ad oggi quello trainante, insieme alle infrastrutture, dello sviluppo cinese”.
Perché non è stato organizzato un salvataggio di Stato?
Finora non è stato fatto, è possibile che si farà.
Dove sta il problema?
Il problema è che non è possibile salvare tutto e continuare tutto come prima. La radice del problema è che il mercato immobiliare è sballato. Deve vendere le case ai privati, ma riceve terreni e finanziamenti dai governi locali, i quali si finanziano quasi esclusivamente grazie alle vendite di nuovi suoli edificatori. Non ci sono invece tasse sugli immobili, tipo l’Imu. Questa politica ha mille effetti distorsivi sul mercato.
Quali?
Le amministrazioni locali sollecitano gli immobiliaristi a edificare, anche se non ci sono prospettive di vendita reali. Gli immobiliaristi aderiscono perché i governi danno loro finanziamenti. Ma questo poi non incide sulla vendita degli appartamenti, che farebbe chiudere il cerchio, anzi. Le amministrazioni, affamate di fondi, vendono i suoli a prezzi sempre più alti, cosa che spinge in alto il prezzo finale di vendita. Il prezzo dei suoli e i vari oneri comunali è circa la metà del prezzo finale dell’appartamento. Quindi si costruisce tanto, al di là di logiche commerciali. Il mercato però è concentrato nelle grandi città, dove ci sono forti limiti agli acquisti, ed è inesistente nelle province. Inoltre Pechino è restia a tassare gli immobili, dove sono immobilizzati la maggior parte dei risparmi della classe media, perché appunto colpirebbe la classe media, oggi base del consenso intorno al governo.
Quindi il problema Evergrande è in realtà un problema fiscale strutturale e politico sostanziale?
Esatto. Le amministrazioni locali devono cambiare fonte di acquisizione delle risorse, inoltre bisognerebbe cominciare a tassare, se pure moderatamente, la classe media. Ma tassare la classe media incrina il consenso politico e cambia nei fatti il contratto sociale esistente. Il contratto sociale oggi nei fatti prevede uno scambio: tu classe media non ti interessi di politica, la politica la fa Pechino, ma Pechino non ti tassa e ti promette uno sviluppo progressivo e certo. Se si tassa la classe media, la gente vorrà anche sapere come sono spesi questi soldi, specie perché, mentre c’è fiducia nell’amministrazione centrale, c’è profonda sfiducia nelle amministrazioni locali, accusate di essere profondamente corrotte. Se i comuni prendono i soldi dai ricchi immobiliaristi in cambio di licenze è una cosa, se li vogliono invece prendere dalla classe media è un’altra cosa.
Ma cosa si rischia?
C’è il timore che se il governo non interviene presto, la crisi di Evergrande possa contagiare anche il settore immobiliare di Hong Kong, che rappresenta circa metà della Borsa del territorio.
Quali sono ora i possibili sviluppi?
Credo non ci sia tempo per affrontare in maniera sistematica questi problemi, si cercherà una soluzione tampone, ma anche questa non avrà vita lunga. Il problema essenziale è che il ritardo nell’intervento di Pechino su Evergrande non crea un effetto domino come Lehman, perché il renminbi non è pienamente convertibile, ma crea una sfiducia dei mercati mondiali intorno alla Cina e grandi incertezze nella classe media, tra coloro che sono direttamente interessati, i milioni che hanno comprato casa sulla carta e ora non sanno se l’avranno o meno. Ma si crea ancora più incertezza tra i proprietari di casa, che non sanno se il valore del loro investimento cadrà, di quanto, e se sarà tassato. Questo a sua volta ha un riflesso esterno, perché rischia di far crollare la fiducia nei mercati verso l’economia cinese.
Potrebbero esserci ripercussioni a livello sociale? Proteste, rivolte?
Non credo, almeno nell’immediato.
Stretta fra bolla immobiliare all’interno e difficoltà dopo il patto Aukus all’esterno, che cosa farà la Cina per uscire dall’angolo?
In teoria, appunto, rischia di esserci una saldatura tra nuove maggiori pressioni militari esterne e nuove pressioni politico-commerciali interne. Ma non mi è chiaro se e quanto la Cina al momento sia avvertita del pericolo. In passato la reazione più facile e immediata a questo tipo di problemi era chiudere tutto all’esterno. In effetti le nuove proibizioni alle quotazioni di aziende cinesi in America vanno in questa direzione. Solo che chiudere ancora oggi avviterebbe il paese e seminerebbe un senso di paura nel mondo verso la solidità dell’economia cinese. Però non è chiaro cosa farebbe.
Cosa dobbiamo aspettarci allora?
In realtà, il problema non è economico, ma politico e strategico, perché è cambiato il paradigma di approccio del mondo in America. Gli Usa, che dominano la finanza mondiale, non si fidano più della Cina, quindi una crisi, grave, gravissima, ma forse anche controllabile, fa invece paura, perché non c’è più fiducia nel paese. O Pechino cambia rotta o crolla o viene espulsa, più o meno rapidamente, dall’economia globalizzata. Questo è il problema dei problemi che Pechino dovrebbe affrontare.
(Marco Tedesco)
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