E’ tornato a Roma, dopo ben 19 anni, un capolavoro assoluto del teatro in musica del tardo Ottocento: Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Ĉiajkovskij in una produzione della Canadian Opera Company curata per il Metropolitan di New York. La regia è di Robert Carsen, le scene ed i costumi di Michael Levine, le luci (elemento essenziale dello spettacolo) di Jean Kalman. Ero in sala alla prima il 18 febbraio in un teatro pienissimo. Le recite di Onegin a Roma sono dedicate a Mirella Freni, di recente scomparsa, che nella Capitale ne fu grandissimo interprete femminile nel 2001. E’ la quinta volta che l’opera si vede nella Capitale.



Sesta delle dodici opere di Ĉiajkovskij, Onegin ha avuto soltanto di recente una buona diffusione in Italia Alla Scala, ad esempio, ci sono stati appena cinque allestimenti per un totale di circa trenta rappresentazioni, dalla “prima” diretta da Toscanini nel 1900 alla produzione importata dal Festival di Glyndebourne (dove era stata varata nel 1994) nel gennaio 2006. Il lavoro, però, è stato messo in scena in quasi tutti i maggiori teatri d’opera italiani negli ultimi sei lustri, principalmente nell’allestimento (grandioso ma tradizionale) prodotto dal Teatro Comunale di Bologna nel 1991. L’allestimento di Bologna era stato costruito sul baritono Paolo Coni, della cui breve stagione ha rappresentato uno dei momenti più alti. Dalibor Jenis ha interpretato efficacemente Onegin a Trieste, a Roma ed altrove. Mirella Freni è stata per decenni la Tatjana di riferimento indiscussa e più commovente. Molte edizioni italiane (anche quella della Scala nel 2006) utilizzano la partitura (ad organico ridotto) del 1879, concepita da Ciajkovskij per alcune recite (da parte di giovani elementi) al Conservatorio di Mosca. L’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma impiega il rimaneggiamento (per vasto organico e voci scaltre) del 1885 per il Bolshoi.



Un cenno all’intreccio. Onegin è un giovane scapolo troppo bello, troppo altero e troppo brillante per cogliere le occasioni che la vita gli offre. E’ stato, per un certo periodo, uno dei seduttori più noti della Pietroburgo-che-può; ora – ha appena 23 anni – lo cercano solo ragazze di dubbia reputazione; è afflitto da ennui esistenziale. Accompagna in provincia il suo miglior amico (il sedicente poeta Lenskij) e rifugge l’amore della sedicenne Tatjana). Offende, in pubblico, Lenskij tentando, ad una festa, di fare finta di sedurgli la fidanzata (Olga, sorella di Tatjana). Ne segue un duello dove dopo avere tentato una riconciliazione, uccide Lenskij. Ripara all’estero per tre anni. Quando cerca di nuovo Tatjana, viene respinto poiché ormai donna matura, per quanto ancora di lui innamorata, ha deciso di restare fedele al proprio anziano marito. Non gli resta che continua a vivere non più con ennui ma con disperazione.



Ci si dimentica spesso che il racconto in versi di Puskin e l’opera di Ĉiajkovskij sono incentrate sia sulla solitudine dello zitello di lungo corso incapace di cogliere la felicità anche quando gli è a portata di mano sia sul contrasto tra i fermenti del mondo delle due coppie giovani e l’ambiente oppressivo della provincia russa e di quello falso ed ipocrita della San Pietroburgo (luogo dove si svolge l’ultimo atto). Siamo nella Russia imperiale tra il 1820 ed il 1830 quando si avvertono i primi segnali dell’inizio della lunga agonia dell’Impero. Onegin, inoltre, rispecchia la crisi esistenziale ed erotico-sessuale di Ĉiajkovskij più di molte altri lavori del compositore – il tentativo di sfuggire dalla propria omosessualità con un “matrimonio bianco” e la pazzia della moglie quando scopre le tendenze del marito. E’ in questo contesto che si spiega come dei personaggi del dramma in musica, soltanto una giovane donna, Tatjana, nella “scena della lettera” – si ribelli, con un atto di totale anticonformismo (“dichiararsi” non andare in sposa a chi le è designato dalla famiglia), alla società in cui vive.

La splendida (e morbosa) partitura di Ĉiajkovskij guarda alla grande musica francese ed italiana di fine Ottocento, distanziandosi dalla “scuola nazionale russa” allora in formazione. Anticipa, per molti aspetti, il Novecento, rompendo forme tradizionali e fondendo innovazione orchestrale e vocale ardita con musica folkoristica ed anche leggera (i ballabili, specialmente quelli del secondo atto).

La produzione presentata a Roma è di gran lusso, al tempo stesso, tradizionale e moderna. Scene essenziali, fatte di pochi elementi, attrezzeria e giochi di luci. Costumi di grande classe costruiti su quadri della Russia dell’epoca. L’orchestra del Teatro dell’Opera è diretta da una grande bacchetta, James Conlon, specializzato nella musica del tardo Ottocento e del Novecento. Rispetto ad altre esecuzioni – ad esempio Levine o Fedoseev – può sembrare che manchi di verve, specialmente nel quadro iniziale. In effetti, è intrisa di malinconia e di ennui de vivre in linea con lo spirito del lavoro. Splendidi i fiati, meno brillanti gli ottoni, specialmente i corni.

Il protagonista, Onegin, è il baritono Markus Werba, che ricordiamo in vari ruoli mozartiani (Flauto Magico) e straussiani (Capriccio, Ariadne auf Naxos). In carriera da anni, quindi non più giovanissimo, si cala perfettamente nel ruolo del ricco dandy ventenne incapace di cogliere la felicità che pur ha “a portata di mano”. Applaudito a scena aperta più volte, specialmente nello straziante duetto con Tatjana al terzo atto.

Lenskij è il tenore albanese, ma di formazione italiana, Saimir Pirgu, oramai star del Metropolitan ma che vorremo vedere ed ascoltare più spesso a Roma. Si è meritato un lungo applauso dopo l’arioso del secondo atto.

Tatjana è Maria Bayankina, giovane grande soprano della scuola del Mariinskij di San Pietroburgo. La parte la calza a pennello. Lunghi applausi alla fine della scena della lettera al primo atto.

Il Principe Gremin (marito di Tatjana) è John Relyea, di recente ascoltato nel Parsifal a Palermo. Calorosamente applaudita la sua lunga aria al terzo atto.

Tra i numerosi personaggi secondari spicca Andrea Giovannini nel ruolo di Triquet.