Arriviamo dunque alla fine del nostro percorso sulle tracce del genio di Darwin, per capire meglio il suo intuito e avventurarci per un quesito importante: cosa ancora non sapeva Darwin e cosa gli avrebbe giovato sapere per una più esatta teoria evoluzionistica?
Abbiamo visto come le scoperte dell’epigenetica – un meccanismo di controllo del Dna attraverso cui l’ambiente può dare al Dna dei messaggi genetici ereditabili – abbiano portato a nuove visioni evoluzionistiche. Un recente articolo di Brant Weinstein e William Jeffery sullo sviluppo oculare nei pesci ciechi delle caverne ha importanti implicazioni per la teoria evoluzionistica. Lo studio rileva che la perdita degli occhi nei pesci che vivono nelle caverne messicane scure non è dovuta a mutazioni genetiche, cosa su cui gli evoluzionisti hanno discusso vigorosamente per molti anni, ma alla regolazione epigenetica. Addirittura Darwin spiegò la perdita della vista nei pesci delle caverne come esempio di cambiamento evolutivo non dovuto al suo meccanismo chiave, la selezione naturale. Invece, ricorse all’utilizzo del meccanismo lamarckiano della legge dell’“uso e del disuso”. (“As it is difficult to imagine that eyes, though useless, could in any way be injurious to animals living in darkness, I attribute their loss solely to disuse”: Darwin, Origin of Species).
Abbiamo anche visto che esiste un modo minuscolo ma efficace per passare informazioni genetiche da una specie all’altra senza che questo dipenda da mutazioni causali: è il dato rivelato dagli studi sugli Archea: il Dna può passare da un essere vivente ad un altro e essere ereditato dalla progenie del secondo.
Infine abbiamo capito che l’evoluzione basata sulla selezione di tratti genetici mutati casualmente funziona per i grandi eventi, cioè per i tratti che implicano la vita o la morte del soggetto, per la sua sopravvivenza, ma non spiega come dei cambiamenti fisici di nessuna importanza per la sopravvivenza possano essere sopravvissuti nei secoli passando di progenie in progenie. I terzi molari degli esseri umani moderni – i cosiddetti denti del giudizio – sono spesso molto piccoli e non di rado non si sviluppano neppure. Al contrario, i terzi molari delle altre specie di ominidi nel nostro albero evolutivo avevano una superficie di masticazione da due a quattro volte più grande di quelle di un umano moderno medio. Certo la perdita dei molari non porta a miglior sopravvivenza, ma sembra essere dovuta semplicemente al non uso, alla perdita di utilità in un essere che non deve più sbranare a morsi la carne delle prede.
Insomma, sembra sempre più evidente che accanto al meccanismo “competitivo” di evoluzione ne sia presente uno “solidale” con l’ambiente, di interazione e non competizione con l’ambiente.
Che messaggio traiamo da tutte queste impronte lasciate dagli studi sull’evoluzione negli ultimi 150 anni? Traiamo un dato bizzarro ma istruttivo: l’evoluzione dell’evoluzione, anzi l’evoluzione della nostra comprensione dell’evoluzione.
In primo luogo ci appare chiaro che il termine evoluzione ormai sia desueto: quando si parla di evoluzione il termine indica un processo finalistico, mentre di finalistico, sia nelle idee di Darwin che di Lamarck, che nelle storie degli Archea o nell’epigenetica non c’è nulla. Ma non appare neanche come un movimento casuale. Potremmo definire tutto questo processo mastodontico e stupefacente con le parole del grande ecologista e chimico Enzo Tiezzi, cioè come un processo stocastico. Cosa vuol dire stocastico? È un termine che viene dal greco stokazomai che indica il gioco del tiro con l’arco. In poche parole, tirando frecce al centro di un bersaglio, le frecce andranno a caso ma come tutte attirate verso un centro, con una certa variabilità. Insomma ci troviamo ad un punto in cui dobbiamo definire l’evoluzione come un processo tra caso e collaborazione interspecie. Tuttavia non sappiamo ancora a che livello interagisca questa collaborazione. È come se nella natura agissero dei fenomeni di risonanza macroscopica che si interfacciano con la risonanza interna agli individui, secondo una ricerca di due italiani pubblicata sulla rivista Phisica A nel 2017.
Certo, nel corso dei decenni le idee evoluzionistiche competitive hanno avuto un bel risalto, tanto da farle sembrare verità assoluta. Dobbiamo superare l’iconografia da libro delle elementari in cui si vede l’immagine schematizzata dell’evoluzione sotto forma di scimmie quadrumani che si trasformano in scimmie bipedi per arrivare alla “perfezione” impersonata dall’essere umano rappresentato, guarda caso, dal maschio bianco. Probabilmente perché l’idea della “prevalenza del più adatto” è stata utile per giustificare anche analoghi principi in campo politico, sociale, filosofico, quali il darwinismo sociale, il malthusianesimo, l’imperialismo con il terribile tentativo di giustificare attraverso il kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco”, la vessazione dei popoli che soccombendo alle armi inglesi, spagnole e francesi mostravano – nell’apparenza del sangue versato, ma non mai nella sostanza – di essere meno adatti alla sopravvivenza.
Le teorie di Darwin non spiegano i cambiamenti “minori” (la perdita dei molari nell’uomo o la cecità dei pesci di cui sopra abbiamo parlato), ma solo quelli maggiori e gravissimi (la morte dei batteri sotto azione di antibiotici e la sopravvivenza dei batteri che casualmente sono diventati resistenti). Restano aperte tante domande.
Si tratta di capire perché i cambiamenti minori si verifichino e propaghino anche se non sono utili alla sopravvivenza. E perché il fenomeno dell’evoluzione abbia fatto propagare fenomeni di immolazione altruistica del singolo in favore del branco (v. puntate precedenti di questa inchiesta) mostrando una sorta di rivoluzione copernicana dell’evoluzionismo: dall’evoluzione competitiva a quella solidale.
Si tratta anche di capire la modalità di nascita di nuove specie. Per l’evoluzionismo competitivo, per casualità si crea un individuo nuovo di una nuova specie, non incrociabile con gli individui di sesso diverso della specie di cui è una mutazione (si pensi al primo uomo nato – si vorrebbe – da una mutazione casuale da una coppia di primati, e che in quanto nuova specie non può proliferare con soggetti della specie da cui deriva); ma con chi si sarebbe riprodotto? Dobbiamo ipotizzare che il caso abbia voluto far mutare nello steso momento e nello stesso luogo due esseri di sesso diverso e che lo stesso caso abbia determinato che si conoscessero e si riproducessero dalla loro unione? Molto poco probabile.
Sono tutti temi aperti, che attendono nuove ipotesi e adeguate verifiche. Quello che appare chiaro è sconvolgente: il dogma dell’evoluzione competitiva, come viene ancora insegnata sui banchi di scuola, non basta più a spiegare i cambiamenti millenari della vita sulla terra.
(10 – fine)