Come cambiano rapidamente le conoscenze scientifiche! Quello che sembrava ieri l’ultima frontiera, oggi è già vecchio. E anche il darwinismo ha dovuto fare i conti con questo turbinio di progresso e novità, lasciando alcuni principi per strada, e mantenendo saldi altri. Uno dei maggiori interventi della scienza nel campo evoluzionistico è stato verificare che i cambiamenti dell’aspetto delle specie possono avvenire su effetto dell’ambiente e che i cambiamenti all’espressione del Dna dopo essere stati indotti dall’ambiente possono permanere per varie generazioni. È il fenomeno detto epigenetica, che mette in crisi le teorie darwiniane.



Infatti per Darwin l’evoluzione segue due passaggi: una mutazione casuale di un individuo e la morte di tutti gli individui simili che non avendo avuto quella mutazione sono inadatti all’ambiente. L’epigenetica invece ci dice che non occorre una mutazione del Dna ma una sua regolazione e che questa regolazione non è casuale ma indotta dall’ambiente. Ricordiamo però cosa è l’epigenetica: è la capacità dell’ambiente di determinare un silenziamento o un’attivazione di uno o più geni. Questo fatto è una scoperta degli ultimi decenni e fa riscrivere il modo di comportarsi del Dna, che fino ad allora era ritenuto immune a qualunque stimolo esterno, tranne a mutazioni dovute per esempio a radiazioni. L’epigenetica spiega che esiste un sistema di regolazione dell’espressione dei geni regolato a sua volta dall’ambiente.



Abbiamo visto nella puntata precedente che l’ambiente può determinare una plasticità degli organismi e che questo può influire sull’evoluzione delle specie. Ammon Corl, con Rasmus Nielsen presso l’Università della California, Berkeley, e i loro colleghi hanno rinvenuto una simile interazione tra plasticità ed evoluzione nelle lucertole macchiate di lato del deserto del Mojave in California. Hanno anche ipotizzato quali possono essere i geni responsabili di questo fenomeno.

Nelle parti sabbiose del Mojave, le lucertole con le macchie laterali oscillano nei toni di color marrone della pelle. Ma quelle che vivono sull’inchiostrata colata lavica di Pisga del Mojave sono tra le lucertole più nere, presumibilmente per mimetizzarsi dai predatori. Negli anni 80 Claudia Luke, allora studentessa universitaria alla UC Berkeley e ora alla Sonoma State University di Rohnert Park, in California, scambiò di habitat le lucertole scure e chiare tra le superfici sabbiose e laviche e scoprì che entrambe le varietà possono regolare i loro colori per abbinarli ai nuovi ambienti in poche settimane. Ma scopri anche qualcosa di inatteso: le lucertole provenienti dall’ambiente sabbioso non si sono oscurate sulla lava fino ad arrivare ad assumere il colore dei normali abitanti della lava, suggerendo una differenza genetica nella capacità delle lucertole di cambiare colore.



L’osservazione di Luke è rimasta un enigma per 20 anni, fino a quando la sua tesi originale è stata ripresa da Corl quando era uno studente laureato con Barry Sinervo, un ecologo comportamentale presso l’UC Santa Cruz. Corl ha sequenziato i geni della progenie delle lucertole dei due habitat (sabbia o lava) per rintracciare le differenze genetiche. Lui e i suoi colleghi hanno scoperto due geni, PREP e PRKAR1A, che sono mutati nelle lucertole più scure. Ognuno influenza la quantità di pigmento scuro, la melanina, prodotta nella pelle.

Quando la lava si è raffreddata per la prima volta 20mila anni fa, suggeriscono i ricercatori, la plasticità fenotipica ha permesso alle lucertole chiare che vagavano sulla lava appena raffreddata di scurirsi per nascondersi e sopravvivere nel nuovo ambiente. Ma questi primi animali dal colore mutato probabilmente avevano diverse gradazioni di colore, e i predatori ghermivano quelli con mutazioni che portavano a colorazioni meno scure. La pressione selettiva favorì le mutazioni che aumentavano l’oscuramento della pelle. “I cambiamenti plastici nella colorazione hanno facilitato la sopravvivenza iniziale e quindi gli adattamenti genetici hanno permesso alle lucertole di diventare ancora più scure”, afferma Patricia Gibert, biologa evoluzionista all’Università Claude Bernard di Lione, in Francia. “Questo studio fornisce uno dei migliori esempi di come la plasticità precede il cambiamento genetico adattativo”, aggiunge Cameron Ghalambor, ecologista evoluzionistico della Colorado State University.

In altre parole, alcune lucertole trasportate su un terreno nero diventavano nere e la selezione fatta dai predatori lasciava sopravvivere quelle più nere di tutte. La lucertola macchiata di lato e altri animali che vivono su un flusso di lava possono regolare la loro colorazione, e sono naturalmente molto più scuri dei parenti che vivono su sabbia più chiara. Questo processo di cambiamento genetico viene chiamato effetto Baldwin. Nella biologia evolutiva, l’effetto Baldwin descrive l’effetto che hanno sull’evoluzione le caratteristiche somatiche acquisite. In breve, James Mark Baldwin e altri hanno suggerito alla fine del XIX secolo che la capacità di un organismo di acquisire nuovi comportamenti o tratti somatici non necessariamente dovute a una mutazione del Dna (ad es. per acclimatarsi a un nuovo fattore di stress) influirà sul suo successo riproduttivo e avrà quindi un effetto sulla sua specie attraverso la selezione naturale.

Questo fenomeno mette in discussione il primo principio dell’evoluzione così come fu disegnata da Darwin, cioè il principio delle mutazioni casuali. Ma è possibile allora che le mutazioni avvengano più velocemente di quanto pensato su basi solo darwiniane? Lo vedremo nella prossima puntata.

(5 – continua)