L’evoluzione della vita così come viene vista dalla vulgata darwiniana ha come dogma che le forme che vanno avanti nella sopravvivenza sono quelle che sopravvivono a eventi avversi. Certo però esistono delle contraddizioni e dei fenomeni che mettono in dubbio che tutto si sia svolto in maniera così lineare. Abbiamo visto nelle puntate precedenti il fenomeno costituito dagli archea, cioè la simbiosi tra batteri, che ha dato vita a nuove specie, e la trasmissione genica orizzontale, cioè il passaggio di pezzetti di genomi tra specie diverse; abbiamo poi assistito al rivelarsi del mondo dell’epigenetica cioè dei un sistema genetico che regola il genoma stesso. Tutti questi fenomeni mostrano la non linearità dell’evoluzione e la sua dipendenza plastica dall’ambiente e non solo dalla mutazione casuale.
Interessante allora è esplorare se e per quali meccanismi l’evoluzione delle specie sia andata in certi casi più velocemente di quanto sia pensabile se avesse dovuto attenersi al comparire causale di mutazioni e alla sopravvivenza delle medesime in base al concetto della sopravvivenza del più adatto ai fattori ambientali, secondo la dogmatica darwiniana. Alcuni scienziati stanno utilizzando organismi a riproduzione rapida per studiare questi fenomeni.
Nel laboratorio di Jonas Warringer all’Università di Göteborg in Svezia, Simon Stenberg applica fattori di stress ambientale ai lieviti per periodi di tempo diversi e verifica la risposta plastica o permanente degli organismi. In una serie di esperimenti, ha esposto il lievito all’agente antiparassitario Paraquat, che fa sì che le cellule producano alte concentrazioni di radicali liberi dell’ossigeno che ne danneggiano il Dna. Per valutare la salute del lievito, Stenberg misura il suo tempo di duplicazione: quanto tempo impiega una colonia a raddoppiare le dimensioni. Quando Stenberg ha applicato per la prima volta la tossina, il tempo di raddoppio del lievito è sceso dalle solite 1,5 ore a 5 ore. Sospendendo l’applicazione dell’antiparassitario, dopo appena quattro generazioni, solo alcune delle colonie hanno recuperato la metà del loro tasso di crescita. Poiché è troppo poco tempo perché un adattamento genetico possa insorgere e interessare un’intera colonia, Stenberg ha concluso che almeno una parte del lievito aveva una forma di plasticità fenotipica che permetteva loro di far fronte ai radicali liberi in eccesso. Quando ha smesso di applicare il Paraquat e poi lo ha riapplicato da 3 a 100 generazioni più tardi, i tassi di crescita delle colonie sono nuovamente crollati dopo 10 generazioni. La riduzione indica che il meccanismo sconosciuto di resistenza al Paraquat non era ancora codificato in modo permanente nei genomi. Ma dopo una costante esposizione al Paraquat per 150 generazioni, il lievito ha sviluppato un adattamento permanente di resistenza all’erbicida.
In seguito, Stenberg ha scoperto quale potrebbe essere il meccanismo di adattamento del lievito: eliminare parte o tutto il Dna nei loro mitocondri, gli organelli che producono energia delle cellule (i mitocondri stessi generano radicali liberi). Quando il lievito è stato esposto per la prima volta agli antiparassitari, ha temporaneamente ridotto il suo Dna mitocondriale, un cambiamento reversibile. Dopo un’esposizione prolungata, tuttavia, il cambiamento divenne duraturo quando smise di produrre del tutto il genoma mitocondriale (il lievito è tra i pochi organismi eucarioti che possono sopravvivere senza questo Dna). “L’adattamento è stato assimilato geneticamente”, afferma Stenberg.
Tutto questo rimanda al concetto di adattamento lamarckiano. Di cosa si tratta? È il concetto che una modificazione genetica può essere indotta dall’ambiente, senza che passi attraverso il meccanismo darwiniano di selezione e morte del meno adatto. Tutto questo necessita ancora di approfondimenti e di riscontri in altri studi, ma è avvincente, e spiegherebbe la rapidità delle mutazioni evolutive che la teoria darwiniana, pur ottimamente fondata, non riesce a spiegare. Certo, quando gli scienziati vedono il termine “evoluzione di Lamarck”, la solita reazione è che si tratta di una teoria a lungo sfatata. Ma la reazione potrebbe cambiare e in questi anni i criteri lamarckiani stanno avendo una forse giusta rivalutazione, come sembrano mostrare ad esempio i lavori della biologa israeliana Eva Jablonka.
In realtà l’idea di un’evoluzione o di un mutamento delle specie è ancora anteriore sia a Lamarck che a Darwin. Scienziati e filosofi vicini all’Illuminismo francese, come Maupertuis, Buffon e La Mettrie, che rielaborarono il meccanismo di eliminazione dei viventi malformati proposto da Lucrezio nel De rerum natura ed ipotizzarono una derivazione delle specie le une dalle altre. All’inizio del XIX secolo iniziarono a sorgere tra gli studiosi di scienze naturali i primi dubbi concreti: negli strati rocciosi più antichi infatti mancano totalmente tracce (fossili) degli esseri attualmente viventi e se ne rinvengono altre appartenenti ad organismi attualmente non esistenti, dunque delle specie nuove erano comparse e altre più vecchie erano estinte. Nel 1809, il naturalista Lamarck presentò per primo una teoria evoluzionista secondo cui gli organismi viventi si modificherebbero gradualmente nel tempo adattandosi all’ambiente: l’uso o il non uso di determinati organi porterebbe con il tempo ad un loro potenziamento o ad un’atrofia.
Jean Baptiste Lamarck era un biologo che visse tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Era esperto di tassonomia degli invertebrati e botanico. Scrisse anche di fisica, chimica e meteorologia. È ricordato soprattutto per la sua pubblicazione di Philosophie Zoologique nel 1809 in cui espone la sua teoria dell’evoluzione.
Descrive due leggi della natura. La prima è che gli animali sviluppano o perdono tratti fisici a seconda dell’uso di tali tratti. Ad esempio, le giraffe hanno avuto il collo lungo perché si allungavano costantemente per raggiungere le foglie alte sugli alberi durante la loro vita. La seconda legge afferma che questi cambiamenti acquisiti nel corso della vita vengono trasmessi alla prole, cioè ereditati. Queste due leggi spiegano come le specie si evolvono attraverso il continuo adattamento al loro ambiente e alla fine si ramificano in nuove specie una volta che i cambiamenti sono diventati abbastanza grandi. Il lamarckismo uscito dalla porta rientra ora dalla finestra? Staremo a vedere.
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