Con l’avvio dell’amministrazione straordinaria di Acciaierie d’Italia SpA, finisce l’era di Arcelor Mittal, con soddisfazione di lavoratori e sindacati che – al di là della preoccupazione per il futuro dell’ex Ilva – ritengono, non a torto, questo un passaggio necessario e importante.



Come abbiamo già scritto, il fallimento del rilancio della grande acciaieria non è imputabile al solo player franco-indiano che, ricordiamo, resta forse l’azienda più importante al mondo nel settore della siderurgia. Peraltro, in Francia sta destinando – insieme al Governo transalpino – 1,8 miliardi di euro per la riduzione delle emissioni di CO2 dalla produzione dello stabilimento siderurgico di Dunkerque. Questo dovrebbe dirci che forse in Italia qualcosa non ha funzionato nel raccordo pubblico-privato, nel rapporto tra Mittal e il nostro sistema.



Inizialmente, i progetti di Mittal erano seri. La multinazionale franco-indiana era pronta a un maxi-investimento da 5 miliardi di euro e a una seria operazione di risanamento ambientale che, per un paio d’anni, secondo le autorità competenti si è svolta regolarmente.

Tuttavia, tra il 2018 e il 2019 i Mittal si sono resi conto che il compito che spettava loro era più complicato di quello che pensavano. Da qui l’avvio di un contenzioso con il Governo italiano – guidato da Giuseppe Conte – anche per la folle revoca dello scudo penale che ha permesso ai Mittal di rivedere e ridefinire il proprio ruolo, alleggerendo completamente gli impegni sottoscritti.



Nel mentre, venivano rivisti gli accordi tra Governo (Invitalia) e Arcelor Mittal che hanno portato alla nascita di Acciaierie d’Italia, accordi che tuttora restano secretati e che più volte le Parti sociali, senza essere accontentate, hanno chiesto di conoscere.

La scellerata gestione di questa fase vede poi il tentativo disperato di Mario Draghi di nominare Franco Bernabè Presidente di Acciaierie d’Italia, il quale finisce per dare le dimissioni alla fine di ottobre 2023 anche per il rapporto difficile che ha sempre avuto con l’ad Lucia Morselli.

Errori e scelte sbagliate dei Mittal e della politica ci consegnano oggi una situazione disastrosa sul piano finanziario, industriale nonché ambientale: l’azienda ha 2 miliardi di debiti di cui 500 milioni sono scaduti. Le banche non fanno più credito, il sito cade a pezzi, circa 5.000 lavoratori sono in cassa integrazione, nel 2023 si sono prodotte soltanto 3 milioni di tonnellate di acciaio a fronte delle 6 previste.

Fino all’ultimo, Invitalia e palazzo Chigi hanno cercato un accordo con Arcelor Mittal, ma non vi sono stati spazi di intesa. Mittal, come del resto ha sempre fatto, tira la corda il più possibile per salvaguardare i propri interessi. In questo caso, l’obiettivo è una lauta buonuscita.

Il Governo non intende cedere e ha optato per la nomina di un commissario, individuato nella persona dell’Ing. Giancarlo Quaranta, attualmente Direttore della Divisione tecnica e operativa di Ilva in AS. Presto – secondo palazzo Chigi – sarà indetta una gara d’appalto per l’individuazione di un nuovo investitore.

Il nome che circola con maggiore insistenza è quello degli ucraini di Metinvest, orfani dell’acciaieria Azovstal di Mariupol distrutta dai russi. Il Ceo Yuriy Ryzhenkov si è già detto interessato, anche per l’impegno già preso a Piombino insieme a Danieli e Officine Meccaniche.

Come già abbiamo detto, il contesto è chiaramente complicatissimo. Ma il Governo pare seriamente intenzionato a un’ultima operazione di  salvataggio, ultima non solo per l’aspetto economico ma soprattutto rispetto alle condizioni agonizzanti dell’impianto di Taranto.

Naturalmente, più che sugli altiforni, bisognerà investire sulla decarbonizzazione. Se l’ex Ilva ha un futuro, ce l’ha in questa direzione.

Twitter: @sabella_oikos

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