Chi ha ancora negli occhi lo smantellamento dell’Italsider di Bagnoli ha l’impressione di star assistendo a un turpe “sequel”. La battaglia attorno all’Ilva di Taranto, con il rischio non ancora fugato di chiudere un impianto per molti versi eccellente, con oltre 10 mila dipendenti in un’area che ha bisogno di sviluppo industriale come nel pane, sa di vecchio. Nell’archivio della Fondazione Ansaldo – ha magistralmente ricordato Ferruccio De Bortoli in un suo recente articolo – si trova un documentario del 1962 intitolato “Il pianeta acciaio”, che narra la nascita dello stabilimento Italsider di Taranto durante il periodo del miracolo economico italiano. Nel film si vedono le ruspe al lavoro per livellare il terreno dove sorgerà un impianto enorme, più grande della città stessa, causando una devastazione.
Il documentario esaltava l’idea che gli uomini stavano costruendo una cattedrale di metallo e vetro, un luogo dove si forgiava l’acciaio, sinonimo di vita e prosperità. Eppure oggi, se dicessimo che quell’impianto è puro sinonimo di crimine, pochi fiaterebbero: da una parte perché non siamo più disposti a sacrificare l’ambiente allo sviluppo; dall’altra perché questa nuova diffusa esigenza viene anche letta con un furore ideologico che nei fatti sta portando sottosviluppo senza per questo riuscire davvero a risanare l’ambiente.
Oggi a Taranto c’è rabbia e depressione. Un accavallarsi tumultuoso di istanze sacrosante – la tutela della salute collettiva -, ma anche di approssimazione, contraddizioni, ideologismo, l’intervento che pareva salvifico ma oggi sembra semmai speculativo di un colosso globale come Mittal, lascia sul campo poco più che rottami. Per i quali l’intervento diretto dello Stato, a sanare vent’anni di danni e dare un’ultima chance all’impianto, è l’unica soluzione per quanto di ripiego.
È impensabile lasciar affondare un pezzo così importante dell’industria dell’acciaio italiana. È chiaro che garantirne il futuro non può passare per una perpetuazione di una forma grave di avvelenamento dell’ambiente: ma si è capito che le soluzioni per contemperare a entrambe le esigenze ci sono. La finanza non manca – Invitalia ha già investito 680 milioni -, ma resta ancora da fare quasi tutto: un accordo che ristabilisca la centralità dello Stato, ridimensionando il ruolo di un padrone privato che, al di là di eventuali torti subiti, è stato molto inferiore alle attese. E il tempo ormai è scaduto.
A ogni pie’ sospinto rispunta lo spettro del fermo impianti: una soluzione che non risolve. La saga giudiziaria attorno all’ex Ilva di Taranto ha già coinvolto tutti i livelli giurisdizionali, nazionali e comunitari. L’esito è stato ovviamente paralizzante. La domanda strategica è: “Chi dopo lo Stato?”. Un grande imprenditore dell’acciaio, che peraltro presiede l’associazione del settore – Antonio Gozzi – ha indicato nel gruppo Arvedi di Cremona il soggetto giusto per competenze, tecnologie e vocazione, a rilevare al più presto la guida del colosso malato, accanto allo Stato e un domani – non lontano! – al posto dello Stato.
È lo stesso industriale che ha già rilevato le acciaierie di Terni, con ottimi risultati: altro impianto dato erroneamente per spacciato. Fare a meno dell’Ilva di Taranto – come ha giustamente sottolineato Gozzi – significherebbe amputare l’Italia e la sua industria di un polmone essenziale, acquistare all’estero tutto quell’acciaio significa indebolire la nostra industria manifatturiera…
Arvedi già nel 2017 aveva presentato un’offerta per il polo di Taranto, ed era entrato nella cordata antagonista di ArcelorMittal, cui partecipava anche la Cassa depositi e prestiti, e che venne però posposta alla Mittal. Un abbaglio clamoroso.
Siamo di nuovo al punto di prima. L’Ilva va riconvertita in modalità sostenibile, e anche con denaro pubblico: come ha fatto peraltro il Governo tedesco, garantendo 2,5 miliardi di euro alla Thyssen Krupp.
È una chance irrinunciabile: per la Meloni, una sfida degna dell’imminente scadenza elettorale europea.
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