Com’è noto, martedì scorso i vertici di Arcelor Mittal e di Invitalia si sono incontrati in Assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia – AdI, la newco nata dall’ex Ilva – per valutare un’operazione di ricapitalizzazione che significherebbe, in questa fase, il salvataggio dell’azienda, dato che sul versante dei debiti la situazione è molto critica – in particolare circa gli approvvigionamenti energetici – e rischia di arrivare a una sospensione delle forniture, cosa che metterebbe la produzione in ginocchio.
Peraltro, proprio ieri, dalle organizzazioni sindacali si è appreso che AdI si appresterebbe a fermare l’altoforno 2. È un altro impianto importante che si ferma dopo l’altoforno 1 e l’acciaieria 1, non più in funzione dallo scorso agosto. E come ha detto ad Agi Valerio d’Alò – Segretario nazionale Fim-Cisl che da sempre segue i destini della grande acciaieria di Taranto – “in questo modo rimarrebbe attivo solo l’altoforno 4, e se questo dovesse produrre ghisa non buona, non abbiamo dove miscelarla, perché non abbiamo la macchina a colare: si rischia così il blocco dello stabilimento”.
La situazione è davvero al limite. E, per quanto l’Assemblea dei soci abbia fissato un nuovo appuntamento (6 dicembre pv), non c’è aria di intesa tra le parti, dato che – come si è appreso dal Sole 24 Ore – tra socio privato e socio pubblico in realtà si è allo scontro: Arcelor Mittal, proprietaria del 62% della società, non ha infatti alcuna intenzione di rifinanziare la società per la quota che le spetta. Tanto che, Giorgia Meloni – insieme al sottosegretario Mantovano e ai ministri Giorgetti, Fitto e Urso – sta valutando di nazionalizzare l’ex Ilva. Per quanto siano già in molti a ritenere scellerata questa opzione, il punto vero è che non vi è alternativa.
Il dissesto del matrimonio tra Governo italiano e Arcelor Mittal – da cui nasce Acciaierie d’Italia, oggi al 38% di Invitalia e al 62% di Mittal – è del tutto palese: il grande gruppo franco-indiano non sta facendo nulla per la competitività del polo siderurgico, del resto in questi 5 anni si è appropriato di ciò che più gli interessava (il portafoglio clienti) e può produrre altrove ciò che si produce a Taranto.
Già da tempo, la situazione dell’ex Ilva è chiaramente fallimentare sotto ogni profilo: finanziario (le banche non fanno più credito), industriale (il sito cade a pezzi e circa 5.000 lavoratori sono in cassa integrazione) e commerciale (alla fine dell’anno si conteranno soltanto 3 milioni di tonnellate di acciaio prodotto e venduto, a fronte delle 6 previste).
Non resta che riprendersi la grande acciaieria – che è un patrimonio del Paese e del cui acciaio ci sarà bisogno anche in Europa – e cacciare Arcelor Mittal. Servono risorse è vero, ma sarebbero di più quelle sprecate se Taranto chiudesse. Già altre volte abbiamo parlato della mala gestione del caso Ilva, in particolare durante il governo Conte II. Ora il punto è cosa fare. Chi scrive ha pochi dubbi: cacciare i Mittal e affidare a una cordata italiana.
Twitter: @sabella_oikos
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