Com’è noto, ieri presso lo stabilimento di Taranto dell’ex Ilva – oggi Acciaierie d’Italia – si è scioperato tutto il giorno, dato l’esito dell’incontro di palazzo Chigi tra Governo e Parti sociali tenutosi mercoledì scorso.
In un comunicato congiunto, in cui sono state spiegate le ragioni dell’agitazione, i sindacati metalmeccanici hanno fatto sapere di aver abbandonato il tavolo a seguito della mancanza di risposte che l’Esecutivo – rappresentato dal sottosegretario Mantovano e da ben tre ministri (Urso, Calderone e Fitto) – ha rivelato. I sindacati si dicono “stupiti ed esterrefatti dall’aver appreso dal Governo dell’interlocuzione in atto con ArcelorMittal per raggiungere un nuovo accordo, dopo quello di marzo 2020“.
Il fallimento del matrimonio tra Governo italiano e Arcelor Mittal – da cui nasce Acciaierie d’Italia, oggi al 40% di Invitalia e al 60% di Mittal – è del tutto palese: il grande gruppo franco-indiano non sta facendo nulla per la competitività del polo siderurgico, del resto in questi 5 anni si è appropriato di ciò che più gli interessava (il portafoglio clienti) e può produrre altrove ciò che si produce a Taranto.
La situazione dell’ex Ilva è drammatica e fallimentare sotto ogni profilo: finanziario (le banche non fanno più credito), industriale (il sito cade a pezzi e circa 5.000 lavoratori sono in cassa integrazione) e commerciale (alla fine dell’anno si conteranno soltanto 3 milioni di tonnellate di acciaio prodotto e venduto, a fronte delle 6 previste).
Il Governo Meloni si ritrova oggi un serio problema tra le mani: cosa fare con un investitore che è socio di maggioranza e che sta portando l’ex Ilva – e quindi la siderurgia italiana – al trapasso finale?
Il problema è molto serio, tanto che il Presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè ha dato le dimissioni.
Iniziamo col dire due cose: per un Paese come il nostro, a trazione manifatturiera, la siderurgia ha un valore strategico altissimo. In secondo luogo, se in particolare lo stabilimento di Taranto chiudesse, il contraccolpo sociale sarebbe molto potente, non solo per la Puglia ma per l’intero Mezzogiorno date le dimensioni del polo produttivo e del suo indotto.
Possiamo quindi rassegnarci a vedere morire l’ex Ilva?
Chi scrive pensa di no, sebbene le difficoltà e i costi siano molto elevati, forse troppo onerosi per le nostre casse.
Bisogna in primo luogo liberarsi di Arcelor Mittal. E capire se l’Europa, attraverso per esempio i fondi del Next Generation Eu (il cui fine ultimo è la riconversione delle filiere produttive), può dare una mano all’Italia per rilanciare l’ex Ilva e per contenere il peso di questo investimento per la nostra finanza pubblica. Un’ipotesi di riqualificazione industriale c’è: è necessario procedere ordinati in quella direzione e con le giuste competenze.
Non è impossibile: a suo tempo, l’operazione con Mittal piaceva anche all’industria europea perché l’acciaio prodotto a Taranto e di qualità molto buona. Il punto è che tra problemi giudiziari e il polo che cade a pezzi – per assenza di manutenzione – molte delle buone intenzioni sono naufragate.
Ma questa, per Giorgia Meloni, potrebbe rivelarsi una grande opportunità. Certo, molto complicata.
Twitter: @sabella_oikos
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