Nonostante la difficoltà che questo esecutivo ha sempre dimostrato nella gestione delle crisi aziendali e dei dossier più complicati – non bastano competenze in materia di finanza pubblica – , non abbiamo mai smesso di pensare (e di scrivere qui) che la situazione che riguarda l’ex Ilva si sarebbe normalizzata, pur nella sua patologia. Questo per un semplice motivo: in questa fase, il Governo sa che non può perdere ArcelorMittal – non vi è infatti un’alternativa – e la società franco-indiana è consapevole da tempo di poter ottenere ciò che vuole dalla debole compagine guidata da Giuseppe Conte. E, quindi, che motivo avrebbe di andarsene?
Naturalmente, come i più ricorderanno, dopo la revoca dello scudo penale (ottobre 2019) la situazione si era di molto complicata: la multinazionale aveva portato i libri in tribunale per il recesso. Ma con l’accordo di marzo la tensione era rientrata e ci si era dati tempo fino al 30 novembre 2020 per dettagliare un’intesa che prevedesse l’ingresso dello stato nel capitale di AM Italia e la modernizzazione della produzione, pena la possibilità della multinazionale di svincolarsi attraverso la corresponsione di una penale (500 milioni di euro).
Eccoci al 30 novembre. Oggi la firma dell’intesa tra il Governo e la famiglia Mittal: Invitalia, la società del Tesoro, entra nel capitale sociale di AM Italia. L’acciaio dell’ex Ilva torna così sotto l’egida dello Stato 25 anni dopo il passaggio dell’industria siderurgica dall’Iri alla famiglia Riva (maggio 1995).
Per quanto riguarda i termini dell’accordo, è prevista la divisione paritaria dell’Ilva tra lo Stato e ArcelorMittal, almeno fino al 2022 quando scadranno i termini dell’affitto degli impianti: in quell’occasione, la nuova società partecipata da Invitalia non solo ne rileverà la proprietà, ma dovrebbe vedere il soggetto pubblico crescere le sue quote rispetto al privato.
L’accordo alla firma rimanda a una fase successiva soltanto dettagli procedurali come, ad esempio, il meccanismo di nomina dei consiglieri ed è accompagnato da un piano industriale che fissa gli obiettivi della produzione: si parte dagli attuali 3,3 milioni di tonnellate annue di acciaio (minimo storico per lo stabilimento di Taranto) e si arriva agli 8 milioni di tonnellate a regime (2025) già previste dai precedenti piani industriali. Sono confermati i livelli occupazionali che vedranno la progressiva riduzione della cassa integrazione. I sindacati lamentano di non essere stati coinvolti nella trattativa, ma avranno ciò che vogliono (la garanzia sui livelli occupazionali) come, del resto, ha avuto Mittal. Proprio per questo, oggi le sigle dei metalmeccanici incontreranno il ministro Patuanelli.
Per quanto riguarda l’intervento di riconversione della produzione, come abbiamo più volte scritto, in particolare a Taranto si procederà con l’investimento per i forni elettrici alimentati a gas (idrogeno) e dalla tecnologia del preridotto (o DRI) e con la riaccensione dell’altoforno 5 oltre che della manutenzione degli altiforni 1 e 4.
La siderurgia italiana è a un tornaround importante. Taranto, anche per le dimensioni del sito, ha tutte le prerogative per diventare un simbolo del Green Deal europeo. È del resto plausibile che la produzione possa crescere, soprattutto perché il mercato europeo – anche per ragioni di politica economica – sarà più attento alle produzioni locali e più chiuso, in particolare, a quelle asiatiche. L’acciaio cinese – insieme a quello turco – è stato infatti, nell’ultimo triennio, fattore che ha scombinato i piani della siderurgia europea. Di recente, la stessa ThyssenKrupp ha annunciato un piano di ristrutturazione importante e 11 mila licenziamenti.
L’accordo tra Governo e Mittal va quindi valutato positivamente al di là del fatto che non si comprendono le ragioni dell’ingresso di Invitalia in queste dimensioni: che lo Stato debba andare in soccorso al privato è ciò che sta avvenendo in tutto il mondo (anche negli Usa), ma è sbagliato che si sostituisca a esso. Non per pregiudizi, ma perché non ne ha le competenze. Soprattutto nell’era di Industry 4.0, in cui anche il più grande innovatore fatica a tenere il passo delle macchine che ha inventato.
Twitter: @sabella_thinkin