John Boorman (1933) è un londinese di Shepperton. Primi studi dai gesuiti, un inizio come critico cinematografico per riviste femminili e trasmissioni radiofoniche, dal 1955 assistente al montaggio alla BBC, dopo sette anni è a capo della sezione documentari. Fino a quando le ricerche per un film su David Wark Griffith lo portano a Los Angeles, circostanza che gli apre la porta della grande produzione hollywoodiana. Una porta con nome e cognome: Lee Marvin, uno dei “duri” per eccellenza del grande schermo, uno dei “cattivi” più convincenti del cinema americano, che per lui è interprete di Senza un attimo di tregua (Point Blank, 1967) e Duello nel Pacifico (Hell in the Pacific, 1968).
Legittimato a budget più ampi grazie a questi successi, nel 1969 Boorman pensa a una riduzione del ciclo arturiano a partire da Le Morte Darthur (1485) di Sir Thomas Malory, con l’aiuto di Richard “Rospo” Pallenberg, londinese di Croydon, architetto a New York e aspirante sceneggiatore: «Ciò che m’interessa è l’idea del viaggio, la ricerca di qualcosa che non è definito, e che alla fine del viaggio si dissolve e non può essere visto. L’idea che sta alla base del mito del Graal è che non lo si poteva contemplare se non in certi momenti, in certe disposizioni dello spirito. Alla fine ci si rende conto che ciò che importa non è il Graal ma il viaggio che conduce a lui, e ciò che è accaduto nel corso della ricerca».
La United Artists invita invece i due a mettere mano all’adattamento de Il Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien, di cui la casa di produzione è proprietaria dei diritti di sfruttamento cinematografico e che Boorman e Pallenberg pensano di poter condensare in una pellicola della durata di tre ore. Il regista riesce ad avvicinare l’autore della trilogia, nonostante gli sia nota la riluttanza alle trasposizioni tratte dai suoi romanzi (a meno che non si parli di prodotti d’animazione, come in effetti accadrà nel 1978 con l’incompleto e controverso Il Signore degli Anelli diretto da Ralph Bakshi), anche se i dubbi di Tolkien sono rafforzati in questo caso dall’indifferenza di Boorman e Pallenberg per l’elemento religioso che sta alla base di tutta la sua opera. Resta il fatto che la United Artists, che ha già aperto i cordoni della borsa per i diritti della trilogia, li deve riaprire per i sei mesi di lavoro dei due soci che portano a una sceneggiatura finale di circa settecento pagine.
L’esito non convince però i produttori, che si ritrovano tra le mani una storia molto diversa da quella originale, a causa di un eccessivo numero di licenze artistiche, con nuove parti non presenti nel romanzo e profonde modifiche di altre, cosa che porta al licenziamento del cineasta britannico: «L’ho costruito come una grande storia distopica. Ho pensato tutto il film, l’ho disegnato, scena per scena, ho pensato a ogni possibile soluzione. Avrei scelto dei ragazzini di dieci anni per fare gli hobbit, truccandoli a dovere, è ovvio. Magari sarebbe venuto fuori un disastro. Magari no».
Nel 1970 Boorman presenta in concorso alla 23ª edizione del Festival di Cannes Leone l’ultimo (Leo the Last, con protagonista Marcello Mastroianni), il suo quarto lungometraggio in cinque anni di carriera: il film – poco amato dalla critica e un fiasco commerciale all’uscita nelle sale – gli vale comunque il premio per la migliore regia. Solo due anni più tardi firma il titolo per il quale è ancora oggi maggiormente conosciuto, vale a dire Un tranquillo weekend di paura (Deliverance, 1972). Eppure, con l’esperienza maturata nello sfortunato adattamento tolkieniano, il regista ha ormai avuto modo di approfondire il vecchio interesse per la materia arturiana e cavalleresca, che nel 1981 lo conduce di nuovo sulla Croisette e a un altro premio, stavolta un riconoscimento speciale per il miglior contributo artistico per Excalibur, film in cui ripercorre le gesta di re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda, coronando un percorso iniziato di fatto con la stessa carriera e andando a creare – dopo il grande successo delle lucasiane Guerre stellari (1977) – un altro caposaldo del genere fantasy: «La leggenda del Graal ci attira perché parla di una natura che non era sporca e con cui l’uomo viveva in armonia. […] Non si tratta di una storia su persone che cercano di scoprire se stesse, ma piuttosto di trovare il loro posto nel mondo, secondo un atteggiamento molto più umile. Vogliono conoscere il loro destino, l’universo al quale appartengono e i loro rapporti con gli altri. Questo è ciò che muove questa storia e mi sembra che si tratti di qualcosa di molto più sano che non un inseguimento senza fine dell’io».
Una visionaria epopea di centoquaranta minuti lungo i quali è difficile non cogliere ciò che li lega (anche) alla materia tolkieniana.
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