Il dado è tratto. Il governo Draghi è nato e il presidente del Consiglio ha ricevuto la fiducia di Camera e Senato su un programma asciutto e duro come una pietra. Ogni parola, un concetto. Meglio così, la sintesi in questo caso è chiarezza. E di chiarezza, in mezzo a tanta confusione e incertezza, ce n’è tanto bisogno.
Oltre che ottenerla dal Parlamento, come Costituzione canta, Draghi la fiducia la propone agli italiani come ingrediente di base per sconfiggere la pandemia e tornare a crescere. In breve, è questo il suo obiettivo e questo dovrebbe essere l’obiettivo di un Paese non più diviso su tutto ma capace di marciare compatto. Per stato di necessità, sì, non certo per amore (a parte quello per le poltrone che pure ha avuto il suo ruolo nella chiusura della crisi). Per uscire dalle secche su cui l’Italia si è incagliata venti o forse anche trent’anni fa senza mai aver avuto la forza e la capacità di venirne fuori per i suoi scarsi e maldestri tentativi.
La fiducia è una cosa seria, recitava una vecchia pubblicità, e si dà alle cose serie. Ora la carta giocata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è la più importante che poteva scegliere nel mazzo che aveva a disposizione quando ha deciso di calare l’asso del salvatore dell’euro (whatever it takes). Come le banche centrali sono di norma prestatori di ultima istanza in campo monetario, così l’ex banchiere centrale si presenta come risorsa di ultima istanza in politica. Dopo di lui, se dovesse fallire (ma nessuno dovrebbe augurarglielo), non potremo che attenderci un lungo e doloroso periodo di declino.
Ma torniamo alla fiducia. Per riuscire nel progetto che ha delineato all’atto del suo insediamento, Draghi sa che nulla di buono potrà scaturire dai suoi sforzi e da quelli della sua squadra se non ci si fiderà l’uno dell’altro. All’interno della compagine governativa, tra i partiti, i corpi sociali, i cittadini. Fidarsi non vuol dire pensarla allo stesso modo, ma comportarsi con lealtà e attendersi comportamenti leali. Che siano conseguenza degli impegni presi nella consapevolezza che tutti faranno il meglio che possono per la buona riuscita dell’impresa collettiva. Un po’ come nel Napoli di Maradona quando vinse lo scudetto.
La fiducia è un collante insuperabile e un formidabile lubrificante. Se mi fido mi sento solidale con i miei interlocutori e non ho bisogno di mille verifiche prima di affidarmi. E non dovrò procurarmi uno scudo e le più diverse armi per difendermi da attacchi presunti e passare all’offesa nel tentativo di non soccombere.
Passare dalla contrapposizione preconcetta alla collaborazione costruttiva sarà una bella sfida. La madre di tutte le sfide, si potrebbe dire prendendo in prestito un’espressione forse abusata. Dare e meritare fiducia sono due facce della stessa medaglia. La fiducia si nutre di rispetto e buona volontà.
Ora tutti possiamo misurare la distanza tra il desiderio e la realtà. Tra i sentimenti che attraversano il Paese – in Italia più che altrove – invidia e ipocrisia la fanno da padrone. Le regole del gioco sono tali da scoraggiare il fare (e fare bene) e premiare il non fare perché, si sa, solo chi non fa non sbaglia. Ed esiste una sorta di non celata diffidenza verso il successo, personale e di gruppo. Il successo provoca antipatia e lo si combatte nei modi più subdoli, spesso con la calunnia. I meriti vanno sempre macchiati con il dubbio. Essere bravi diventa una colpa. Alla competenza si preferisce l’appartenenza.
Ecco, tutto questo armamentario di cattive abitudini e pessimi propositi occorre smantellare se davvero si vogliono compiere i passi in avanti che il nuovo corso promette. Niente giochi delle tre carte, da nessuno e per nessuno. Da Paese della diffidenza l’Italia deve diventare il Paese della confidenza.