Il Paese che ci imita di più? Il Giappone, dove oltre 7 prodotti che strizzano l’occhio alla nostra cucina nulla hanno a che spartire con l’Italia. A seguire ci sono poi Brasile e Germania. E il prodotto che più spesso viene presentato come espressione del tricolore, ma che non ha nessun legame con il Bel Paese? Il ragù, “falso” nel 61,4% dei casi, tallonato da parmigiano (61,0%) e aceto balsamico (60,5%).



È quanto risulta dall’indagine condotta da The European House Ambrosetti e Assocamerestero e presentata in anteprima durante la sesta edizione del Forum Food&Beverage, andata in scena a Bormio il 17 e 18 giugno. Lo studio ha cercato di indagare e soprattutto quantificare il fenomeno dell’Italian Sounding, termine inglese con cui si identifica l’utilizzo di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni di prodotti agroalimentari tipici della tradizione nostrana, ma che con l’Italia hanno ben poco a che fare. 



A essere coinvolti dalla survey nello scorso mese di marzo sono stati 250 retailer della Gdo internazionale con un focus su 10 Paesi (Stati Uniti, Canada, Brasile, Regno Unito, Germania, Francia, Paesi Bassi, Cina, Giappone e Australia) e 11 nostri prodotti tipici (parmigiano, gorgonzola, prosciutto, salame, pasta di grano duro, pizza surgelata, olio-extra vergine di oliva, aceto balsamico, ragù, pesto e prosecco). E i risultati restituiscono numeri davvero significativi: dall’analisi del solo campione analizzato emerge infatti che l’Italian Sounding vale 10,4 miliardi di euro, superando del 58% il valore delle corrispondenti esportazioni di autentici prodotti italiani, che si fermano a quota 6,6 miliardi di euro. Indicatori che, proiettati su scala internazionale, portano a stimare un valore complessivo del fenomeno nel mondo pari a 79,2 miliardi di euro. Il che significa quasi 30 miliardi in più rispetto al giro d’affari generato complessivamente dalle esportazioni agroalimentari italiane che nel 2021 hanno comunque segnato un record, raggiungendo i 50,1 miliardi di euro, frutto di una crescita del 10,8% rispetto all’anno precedente, ovvero la performance annuale più alta mai registrato nell’ultimo decennio. 



Lo studio però si è spinto anche oltre, cercando di depurare la stima precedente da quei consumatori stranieri che scelgono consapevolmente prodotti riconducibili all’Italian Sounding solo perché presentano un prezzo più accessibile. E ha così scoperto che più di 3 shopper su 10 basano le proprie scelte di acquisto di prodotti tipici italiani sullo scontrino ridotto e non sul reale desiderio di italianità certificata. Il che induce a circoscrivere la portata del fenomeno a 6,8 miliardi di euro nel cluster di riferimento e a 51,6 miliardi di euro a livello globale. 

Un valore più limitato, certo, che rappresenta però il vero “terreno di caccia” sul quale possono agire le nostre imprese. Un valore di tutto rispetto perché, se conquistato, potrebbe arrivare a fare duplicare le esportazioni del settore. Un obiettivo che potrebbe perfino essere superato se il nostro sistema industriale riuscisse recuperare anche, almeno in parte, quella parte di produzione che va ricondotta alla vera e propria contraffazione. Già, perché è bene ricordare che l’Italian Sounding non nasconde pratiche illegali: il fenomeno infatti offre nessuna deroga alla conformità verso le regolamentazioni di etichettatura. Ma vero è che produce enormi ricadute negative per la diffusione dell’agroalimentare Made in Italy nel mondo.

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