Mentre il Governo annunciava la nuova tassa sugli extraprofitti delle imprese energetiche, con un’aliquota al 35%, la principale utility italiana, Enel, presentava il nuovo piano industriale. È un piano che apre con 21 miliardi di euro di cessioni che arriva dopo un calo del titolo del 50% negli ultimi sei mesi e gli investitori particolarmente sensibili sul debito. Lo scenario per le utility è cambiato radicalmente negli ultimi dodici mesi. Il prezzo del gas è impazzito ed è estremamente volatile, le forniture sono incerte, si prospettano difficoltà a riscuotere le utenze e i governi entrano nella gestione come mai accaduto. Oltretutto dato che fino all’altro ieri il settore, nel suo insieme, era percepito come a basso rischio, i livelli di leva sono superiori agli altri settori; oggi quindi ci si chiede quanto il settore dovrà pagare di più in tassi di interesse.
Il Governo italiano ha annunciato una tassa sugli extraprofitti sei mesi fa talmente punitiva e scritta male che, dopo poco più di sei mesi, si è posta la necessità di una riscrittura per allinearla a quella europea che almeno tassa i profitti e non i ricavi. Negli ultimi sette giorni si sono discusse almeno tre aliquote: prima 25%, poi 33% e alla fine 35%. Questo non è uno scenario che invoglia a investire. L’incertezza regolamentare è certamente peggiore delle aliquote elevate. Nel secondo caso ci si può sedere al tavolo, incorporarle nei conti e individuare investimenti che stiano in piedi, nel primo no; l’alea è ingestibile a fronte di investimenti di decine o centinaia di milioni di euro.
Il Governo italiano introduce la tassa anche per “finanziare i tagli al cuneo fiscale” e per calmierare il caro energia. Il rallentamento economico che ha come prima causa la crisi energetica viene controbilanciato da sussidi e tagli fiscali pagati dalle tasse sugli extraprofitti. Sono interventi che bisogna maneggiare con estrema cura perché il motore degli investimenti in rinnovabili o in idrocarburi sono le utility e le società energetiche. È dai loro bilanci che escono i miliardi con cui pagare nuovi campi eolici, solari, impianti di biometano o nuove trivellazioni. Se società strette tra fornitori carissimi e clienti in difficoltà non si fidano dell’impianto regolatorio e della buona collaborazione del Governo gli investimenti possono solo scendere.
Più passano le settimane, più diventa evidente che la crisi energetica non durerà lo spazio di un inverno e che la sua soluzione richiede anni di buon governo e tanti, tantissimi investimenti. La gestione dell’emergenza va bene, ma non può diventare l’unica priorità a discapito di un piano per portare i costi dell’elettricità a livelli compatibili con la sopravvivenza del sistema economico e della società italiane. Non si capisce chi dovrebbe volere costruire nuovi parchi eolici o trivellare in questo scenario.
In questa fase complicata il capitale vola non tanto verso geografie con tasse basse, ma verso quelle che hanno certezza regolamentare e in cui i governi vengono percepiti come affidabili. Il capitale nel nuovo mondo dell’inflazione, dei tassi alti e della bassa crescita è una risorsa scarsa o molto scarsa. Se non si mette in moto un circolo virtuoso, i soldi per le emergenze prima o poi finiscono. In Italia, invece, nemmeno si è ipotizzata una deducibilità legata agli investimenti.
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