Nel programma delle proiezioni fuori concorso della 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia trova spazio quest’anno, a vent’anni dall’uscita, la riedizione dell’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut. Film molto discusso per il presunto contenuto scabroso, in realtà denso di tante istanze narrative, visive, simboliche e perfino sublimali, ma che principalmente si segnala come l’ennesima riflessione sul voyerismo cinematografico del grande regista newyorchese. Forse il più riuscito, quello definitivo, che prende le mosse da una metafora visionaria e perentoria della decadenza della borghese società occidentale. Quello che, un giorno prima della morte, Kubrick stesso confidava a Julian Senior, stretto collaboratore londinese della Warner, essere il suo miglior film.



Come consuetudine vuole lungo tutta la carriera (quasi: fa eccezione il primo film professionale, Il Bacio dell’Assassino, 1955) Kubrick lavora su un soggetto non originale, traendo liberamente la storia del film dal racconto Doppio Sogno, scritto nel 1926 da Arthur Schnitzler in inglese col titolo Rhapsody: a Dream Novel. Circostanza che indica, ancora una volta, quanto a Kubrick interessino più la messa in scena, lo sguardo, l’immagine, il creare pathos con esse, significati e attrattiva per lo spettatore piuttosto che un particolare racconto in sé.



La novella di Schnitzler, ambientata nella Vienna degli anni Venti, tratta della crisi matrimoniale di una coppia borghese, il dott. Fridolin e la moglie Albertine. Il film trasporta la vicenda, in maniera abbastanza fedele, nella New York contemporanea. Sia libro che film mettono a confronto le avventure reali del marito e le fantasie della moglie, chiedendosi: che differenza c’è tra vivere un’avventura sessuale e sognarne una? Ma lo specifico del cinema consente a Kubrick di andare molto oltre. In questa ultima opera, che egli considerava un fondamentale punto d’arrivo della propria arte visiva, come non mai l’immagine è utilizzata, oltre che per raccontare, anche per il senso simbolico che richiama. Mirabile l’utilizzo allegorico che l’autore fa dei colori primari. Il film è immerso costantemente, un’inquadratura dopo l’altra, in luci, arredamenti, scenografie o altro di colore rosso, blu o giallo. Il primo significa sesso, tentazione, trasgressione. Lo troviamo associato ai personaggi o ai luoghi con questa marca, sia narrativa che espressiva: di rosso veste l’organizzatore dell’orgia, di rosso è decorata sia l’auto che porta il protagonista Bill (Tom Cruise) alla villa come la villa stessa. Rosso è il tavolo da biliardo di Ziegler (un ispirato Sidney Pollack), l’amico che ha introdotto Bill all’orgia. Il giallo e il blu si trovano invece quasi sempre associasti nella stessa immagine, l’uno come rovescio della medaglia dell’altro. Abbondano infatti gli interni con diffusa luce gialla e finestre di un blu uniforme; oppure l’opposto, cioè esterni notturni con una vivida luce bluastra con sullo sfondo edifici con tutte le finestre illuminate di giallo, come tanti inquietanti occhi. Giallo come il colore del tradimento e blu come il colore del pericolo e della paura. Infatti gialla è la luce diffusa alla festa di Ziegler all’inizio del film, dove i due coniugi flirtano nello stesso momento, l’uno all’insaputa dell’altro, con altre persone. Blu è lo sfondo della scena in cui Bill si immagina la moglie che fa l’amore con l’ufficiale di marina, come raccontato da lei. Dopo che Bill è tornato dalla villa e la moglie Alice (Nicole Kidman) gli ha raccontato il suo sogno, tremendamente simile a quello che Bill stesso ha appena vissuto alla villa, i due si abbracciano nella camera da letto immersi in un taglio di luce a due colorazioni, giallo e blu, appena dietro la loro silouette.



Sul piano più prettamente tematico, in Eyes Wide Shut si riscontrano il dissidio tra inconscio e realtà della vita, l’opposizione natura/cultura, ennesima rappresentazione filmica che Kubrick fa di questo peculiarità della specie umana. Quest’ultima sempre vista dal regista, lungo la sua notevole carriera, come contenitore di pulsioni al tempo stesso simmetriche e asimmetriche, complementari e contraddittorie. Tutto ciò restituito sul piano visivo e allegorico dal fatto che in Eyes Wide Shut l’associazione binaria di figure speculari è continua, fin dalla opposizione contenuta nel titolo (wide/shut, ovvero aperto/chiuso). La vicenda comincia con i protagonisti seminudi davanti ad uno specchio, come se attraverso quello specchio iniziasse lo strano viaggio del film, e non a caso la protagonista femminile si chiama Alice. Lo specchio, il doppio, la coppia: due sono i protagonisti e due i sogni che li visitano. Bill incontra per due volte Ziegler, l’organizzatore delle orge. Due sono le disponibili modelle che lo corteggiano alla festa iniziale da Ziegler, e due le volte in cui Bill incontra Mandy, la ragazza prima salvata alla festa e poi ritrovata all’obitorio, probabilmente sacrificata nell’orgia per colpa sua. Orgia nella villa che non a caso occupa un posto centrale nella struttura narrativa a specchio del film. Una specie di spartiacque, dopo il quale si ripete in sostanza tutto o quasi quello già successo prima. L’orgia tuttavia non richiama il sesso o la trasgressione, per come è ripresa freddamente da media distanza, ma piuttosto un rito o un cerimoniale che non sa ripetere altro che sé stesso. E qui si intravedono parallelismi con L’Angelo Sterminatore (Luis Bunuel, 1962), film fortemente allegorico, come in fondo è Eyes Wide Shut, e di altrettanto forte critica nei confronti dei riti della società borghese, vuota, bigotta e perbenista.

Insomma, Stanley Kubrick con questa ultima opera si mette alla stregua di un antropologo, il quale più che interrogarsi sulla differenza tra realtà e sogno, si esprima a favore della loro contiguità. Attività antropologica che nel Cinema – fabbrica dei sogni per eccellenza – trova un mirabile e naturale domicilio.