Quando nel 2016 vidi il maestro Ezio Bosso fare il suo ingresso sul palco dell’Ariston, la mia prima reazione (purtroppo devo ammetterlo) fu di fastidio: non nei suoi confronti, ma della Rai, che credevo stesse sfruttando il suo handicap per suscitare facili sentimenti di compassione.
Evidentemente non conoscevo il personaggio ed ero caduto nella trappola del pregiudizio, che il maestro e compositore torinese ha sempre combattuto fino alla morte: l’avevo giudicato a prima vista, a partire dalla sua malattia, senza sapere nulla di lui.
Poi ha iniziato a raccontare a fatica di sé, della musica, ha commentato ed eseguito la sua “Following a bird”, dall’album “The 12th room”, gettandosi – letteralmente – sul pianoforte prima dell’esecuzione in modo goffo, come preso da uno spasmo, salvo poi eseguire il brano con una delicatezza unica. Ho assistito a una vera trasfigurazione, come direbbe Nick Cave.
Mi sono vergognato della mia meschinità, che però mi ha permesso di sorprendermi e commuovermi per il fatto di essermi trovato di fronte a un uomo vero, straordinario (“occorre perdersi per ritrovarsi“, amava ripetere, e io credo di averlo capito).
Si è tanto parlato di Ezio Bosso dopo la sua morte, e mi sono chiesto se davvero occorresse buttare giù due righe per celebrare un uomo che già tutti han celebrato. Ma poi mi sono risposto che non voglio scriverne per cantare le sue lodi, ma per cercare di capire cosa lo ha reso speciale e per imitare il suo modo di porsi nei confronti della vita, fino a far mia la certezza che esiste qualcosa di più grande della sofferenza e della malattia.
Innanzitutto sono corso a guardare le sue interviste e i suoi concerti. Quelle che seguono sono annotazioni da alcuni suoi interventi (soprattutto quello al Festival Sanremo, l’intervista per il periodico “Tracce”, quella di fanpage.it, per il programma “i dieci comandamenti” e un suo concerto per programma radiofonico “Showcase”). Qui ho trovato la conferma di ciò che a pelle mi aveva suscitato il primo incontro con il maestro.
Innanzitutto vedere un uomo felice – davvero felice – colpisce, fa invidia (anche se non fa notizia). Vedere un uomo con una malattia neurodegenerativa gravissima sorridere, anche con gli occhi, in modo incontenibile, commuove.
“Ho avuto una vita meravigliosa” era il suo mantra. Lo ripeteva sempre, nella gioia e nel dolore.
Eppure alla domanda: “Sei felice?” lui rispondeva: “Non te lo so dire, ma di sicuro tengo stretti i momenti di felicità. Li vivo fino in fondo, fino alle lacrime, perché saranno quelli a salvarti nei momenti bui“.
A fargli vivere quei “momenti di felicità” è stata sicuramente la musica. “Come tutta la bellezza è una necessità“, diceva. E questa sua tensione alla bellezza era evidente. Anche il silenzio era da lui vissuto come una tensione, come un momento pieno di attesa, in cui ognuno si scopre pieno di desiderio e impara a guardare: “Non facendo più silenzio, non sappiamo vedere che la bellezza è sempre a portata di mano“.
Questo è lo sguardo di chi umilmente si riteneva servo dell’arte, più che suo artefice: “La musica che scrivo non è mia, ma diventa di chi la suona quando la suona, di chi la ascolta quando la ascolta… Si può fare solo in un modo: insieme, perché è un atto d’amore“. Inoltre considerava il fare musica insieme un atto politico (nel senso etimologico del termine: l’orchestra infatti era vista da lui come una società ideale, in cui il miglioramento di uno influisce sull’armonia poli-fonica di tutti) e un sacrificio, cioè qualcosa che rende sacro ciò che tocca.
Cio significa che “la musica purifica la realtà, ci avvicina al mistero di cui già partecipiamo, facendoci sentire parte di un disegno più grande, non controllabile. È la rappresentazione divina nelle mani degli uomini“.
E la sua musica delicata è proprio il riflesso di un’anima disponibile a lasciarsi stupire dalle cose, innamorata del “Chiaro di luna” di Beethoven (e si sente), qualcosa che “fa volare, che è meglio di camminare“.
Molti invidiosi sostengono tutt’ora che la carriera di Bosso sia stata agevolata dalla sua condizione, che molti giovani compositori meritevoli non abbiano avuto le sue possibilità lavorative. Lui ironizzava dicendo che si trattava dell’antica storia del saggio e della luna: “C’è chi invece di ascoltare ciò che so fare vuol guardarmi le ruote. Per loro le ho fatte lucidare, così almeno potranno vedere delle belle ruote”.
Eppure è sbagliato pensare che la sua malattia non abbia influito sul suo modo di dirigere, di comporre o di suonare. Come il grande Claudio Abbado, ormai anziano e prossimo alla fine, anche lui diede ai suoi ultimi concerti uno struggimento unico, così come Ferenc Fricsay – malato terminale – a “La Moldava” di Smetana, nel 1960. Cio che rende uniche queste performance è il tocco ineffabile di chi si dona tutto, senza sconti, perché sa che ogni istante è prezioso.
Chiunque l’abbia visto suonare o dirigere un’orchestra rimaneva a bocca aperta perché vedeva un uomo appassionato, che non si risparmiava per paura della sofferenza.
“Passione”, però, è anche il termine che indica la via della croce e mai parola fu più giusta – a mio avviso – per descrivere la sua vita.
“Dopo i concerti vado a letto stremato, ma felice e nostalgico“.
Ezio Bosso è stato, senza dubbio, un uomo che ha vissuto intensamente la realtà. Ogni brutto colpo della sorte veniva vissuto come occasione per una rinascita, per affezionarsi di più all’esistenza, al suo pianoforte, alla vita. Per descrivere la sua esistenza usava la parola “lotta“, mai “sconfitta”.
Anche nei rapporti viveva questa assoluta apertura d’animo, che su traduceva in una disponibilità all’incontro: “Per me esserci vuol dire esserci, per gli altri, non solo su un palco“.
Una tale forza non può che trarre nutrimento da radici profonde. Infatti la parola “radici” spesso ritorna nei suoi interventi. Se prima amava definirsi “profondamente sradicato”, perché obbligato a vagare di città in città, dopo la morte del padre iniziò a interrogarsi sulla profondità di questo termine. “Certi avvenimenti”, diceva, “separano i momenti veri da quelli che crediamo siano importanti e riattivano la memoria. Così uno scopre chi è veramente”. Ripercorrendo col ricordo gli incontri fondamentali che lo segnarono, arrivò alla fine a dire che: “Più uno si lega e più, paradossalmente, diventa libero“.
E proprio la sua famiglia è stata il luogo che ha permesso che crescesse la sua passione per la cultura e per la musica. “Mio padre era tranviere e mia madre operaia della Fiat. Venivano dalle lotte partigiane per la liberazione e loro ci credevano, credevano che una liberazione fosse possibile, soprattutto attraverso la cultura: infatti casa mia era piena di libri. Si indebitavano per comprarli!“. Da qui nasce senz’altro la sua sete di giustizia sociale perché, diceva: “Non è giusto che un povero non possa diventare direttore d’orchestra“.
Ezio Bosso aveva trovato la via giusta per la sua liberazione, lottando e cercando di non perdere mai la capacità di stupirsi di fronte slla bellezza. Io credo che anche per noi queste possano essere preziose ancore di salvezza in questo tempo di paura, crisi, incertezza, sofferenza… perché, in fondo, il compito dell’arte è proprio “svelare il mistero, che non significa spiegare il trucco, ma entrare in quella cosa meravigliosa che è la vita quotidiana.