Per mesi, mentre scrutavamo dalla finestra l’arrivo del virus e mentre pensavamo con una certa nostalgia a quanto erano belle le giornate trascorse nel mondo, abbiamo ascoltato quotidianamente il Papa (grandissimo: lo Spirito Santo ci manda sempre il Santo Padre adeguato per il momento storico) sollecitarci a pregare e convertirci.
Per contrappeso, non dovessimo per caso diventare troppo santi e bravi, abbiamo anche sentito Soloni (alcuni veri, molti autoproclamatisi tali) ed esperti (leggi: esperti di un po’ di tutto) spiegarci che eravamo in guerra, che la campagna di Russia fu al confronto una passeggiata di salute, che i nostri eroi combattevano sul Don, sul Piave, sul Carso, a Codogno e nei Pronti Soccorso d’Italia. Insomma, una tipica retorica, a volte francamente insopportabile, e invece ben inquadrabile entro l’austero motto del ventennale mussoliniano «Armiamoci e partite».
Ora, quando ormai la guerra dovrebbe essere divenuta a bassa intensità e da calda dovrebbe essersi trasformata in tiepida, ora dagli stessi che ci spiegavano le tattiche belliche ascoltiamo lamenti e lai sull’estate che non è più quella di una volta perché le aziende rischiano di dover restare aperte.
Rischiano? Dover restare aperte?
Intendiamoci: questa crisi Covid ha fatto quel che i grandi investitori, i megatrader, fanno periodicamente, e cioè ha provocato una selezione drammatica nel mondo economico. Chi, imprenditorialmente parlando, aveva più di 80 anni e patologie pregresse, venendo a contatto con il Covid ha affrontato un combattimento mortale. Alcuni sono sopravvissuti, altri no. Chi non ce l’ha fatta? Le aziende con disponibilità finanziaria limitata e fondata sui prestiti bancari, i monoclienti, gli esercizi commerciali dai margini ridotti e dagli affitti esorbitanti. Le imprese che aspettano dallo Stato i pagamenti per servizi e lavori, le cooperative fasulle fondate sui ribassi d’asta assurdi e insostenibili.
Ecco tutti costoro sono entrati in crisi e generano disoccupazione. Perché a noi delle imprese che chiudono importano soprattutto le conseguenze per i lavoratori. Ma tantissimi altri hanno ripreso, a fatica, a rilento, tra clienti che chiedono ma non pagano, fornitori che invece vogliono i soldi subito e banche che proclamano di darti i soldi e di sostenerti e direttori delle agenzie che invece sono sollecitati a rispettare protocolli, programmi, circolari, avvisi, mail riservate e soprattutto, suggerimenti verbali, di prudenza, attenzione, e in particolare lentezza. Perché ora che lo Stato ha riempito i forzieri degli Istituti di credito, per svuotarli c’è sempre tempo !
Il tessuto industriale italiano non è scomparso, la “guerra” di cui si è detto non ha distrutto fisicamente il complesso del nostro sistema produttivo, ma ne ha minato alcune fondamenta e ha provocato una selezionato darwiniana. Per fortuna c’è chi ha ripreso, le piccole e piccolissime industrie non hanno mollato, le cooperative “vere e sane” si sono sbattute per restare a galla. Ora hanno davanti due scelte per l’estate: pensarla come un periodo uguale agli altri o pensarla come un momento di trasformazione.
Moltissime aziende stanno già valutando di riorganizzare il piano ferie, rinviando, anzi abolendo, la classica chiusura ferragostana. Ora che sembra che il lavoro stia arrivando, sia pure perché se ne è accumulato troppo nei mesi di chiusura, troppo forte, e troppo giusta, è la tentazione di modificare abitudini consolidate e di tenere aperto in agosto le linee di produzione.
Perché giusto dirà qualcuno tra voi? Semplice: perché la chiusura estiva una volta, tante ere geologiche fa, era un costume sociale; poi divenne un’abitudine; ultimamente è stato solo il modo con cui troppe imprese si sono difese in momenti di bassa, quando gli ordini clienti stavano a zero o giù di lì. Chi aveva un portafogli ordini ben saturo, gonfio di lavoro e dunque di danée, spesso ha contrattato con i sindacati turni diversi, chiusure minime, ferie gestite su periodi più lunghi.
Dunque lavorare d’estate non è una novità. Il punto piuttosto è che, come troppo sovente capita, il mondo produttivo va da una parte, ma nessuno o quasi lo segue. Fin qui, in fondo, solo le località turistiche dovevano affrontare questioni come quali asili e quali servizi per l’infanzia (cioè per i figli di chi deve lavorare negli alberghi e nei ristoranti) devono funzionare in luglio e agosto; o come il sostegno alle famiglie impegnate fino a 16 ore al giorno a rispondere ai vacanzieri. Oggi che anche il mondo industriale si sta indirizzando su quella strada, cosa ne diranno (e soprattutto cosa faranno) le autorità comunali di tanti piccoli e medi centri abitativi del Nord operoso e covidizzato? Non basterà qualche proclama, ma occorreranno idee e soluzioni, di cui però non si intravede ancora l’ombra impegnati come siamo a discettare di filosofia politica.
Insomma, il problema non è se lavorare o no in agosto, o se cambieranno le nostre abitudini: quelle cambiano sempre e da sempre. Un po’ come il clima: i mutamenti climatici sono una novità solo per chi non conosce la storia e nemmeno la geografia. E poi in fondo Winston Churchill non affermava forse che “solo le mucche non cambiano mai idea”? No il problema non è lavorare quando invece si era abituati a riposare, perché lo abbiamo sempre fatto in tanti: chi per dovere, chi perché alternative non ce n’erano, chi perché la sua pagnotta la tirava fuori dal riposo degli altri. Il problema invece è se questo lavoro sarà regolare, sarà pagato il giusto, secondo contratti nazionali; se le relazioni sul luogo di lavoro saranno corrette, se le ferie saranno comunque garantite, se il caporalato non sarà ancora quel fenomeno dimenticato da Dio e dagli uomini. Se le famiglie che lavoreranno ad agosto avranno diritto ai servizi o se invece dovranno come sempre “arrangiarsi” con i nonni e i vicini.
E allora torniamo con la memoria al Papa, ai suoi inviti a pregare per il lavoro e i lavoratori e ci chiediamo: ma Francesco cosa ci direbbe se gli chiedessimo di scegliere per noi tra un’estate al Papeete e un lavoro dignitoso per l’uomo e la sua famiglia?