Due casi di morte per sedazione profonda simili seppur diversi si sono sommati nelle ultime ore. Quello di Fabio Ridolfi, un uomo di 46 anni che da 18 è immobilizzato a causa di una patologia irreversibile, e quello di Mario, tetraplegico da 12 anni dopo un incidente d’auto. Ridolfi aveva chiesto all’Azienda sanitaria delle Marche di poter accedere al suicidio assistito, in base alla sentenza del 2019 della Corte costituzionale sul caso di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, ma benché sia stato stabilito che Ridolfi abbia i requisiti per accedere legalmente al suicidio assistito, non è mai stato indicato un parere sul farmaco e sulle relative modalità della sua somministrazione.



Per Mario invece si potrebbe fornire il farmaco, ma a sue spese, per un importo pari a 5mila euro. Il tutto in mancanza di una legge sull’eutanasia. Fabio Ridolfi ha così deciso di avvalersi della sedazione profonda.

La differenza sostanziale tra la sedazione profonda e continua e il suicidio assistito sono i tempi” ci ha detto Marco Maltoni, coordinatore della Rete di Cure palliative Romagna. “Con quest’ultimo la morte è immediata, mentre con la sedazione profonda e continua il percorso che porta alla morte può durare anche diversi giorni”.



Siamo davanti al paradosso che, pur non esistendo una legge sulla morte assistita, o eutanasia come si preferisce chiamarla, grazie a una sentenza della Corte costituzionale di alcuni anni fa, in Italia si può comunque decidere di morire, perché tale decisione è depenalizzata, ma non legalizzata. Cosa significa?

Ci sono alcuni punti chiari e altri sfumati. Quello che è chiaro è che non si muore per una sedazione palliativa neanche profonda. La sedazione non accelera il decesso, questo deve essere chiaro dal punto di vista medico.

Una persona sedata morirebbe di fame e di sete?

A monte di tutto c’è il rifiuto o la rinuncia al consenso informato, rifiuto che vuol dire che uno nega sin da subito l’assistenza medica o vi rinuncia in seguito. Questo rifiuto può anche essere a un supporto vitale, non necessariamente una terapia. La persona che è tenuta in vita grazie a supporti vitali artificiali come nel caso di Dj Fabo, nel momento in cui interrompe il proprio consenso e non vuole più essere alimentato, qualora in questo periodo di interruzione al supporto vitale si prevede possano esserci delle conseguenze soggettive, cioè dei sintomi importanti, allora la persona deve essere sedata per non subire questi disturbi.



Cioè non soffrire?

Proprio perché la seduzione profonda non accelera la morte ci saranno due, tre, quattro, sei giorni in cui la persona cade in una sorta di coma indotto dai farmaci. Le persone che fanno questa scelta dicono che non vogliono essere viste dai loro congiunti in quello stato di coma indotto. Questo è significativo. La sedazione agisce sul come uno arriva al momento del decesso, ma non lo accelera. È un fatto che quella persona è ancora lì, e ci sono infermiere e dottori che lo accudiscono. Questo noi nei nostri Hospice lo vediamo ogni giorno.

Ma siamo in grado di dire che un uomo che sta morendo di fame e di sete, seppur sedato, stia soffrendo fisicamente?

Detto in modo grossolano, ci sono vari modi per capire se una persona, seppure in coma, stia soffrendo, basta ad esempio dargli un pizzicotto. Quello che non sappiamo è quanto di ciò che è all’esterno gli arriva. Per questo noi diciamo ai familiari che se la persona è in coma siano presenti e gli parlino, perché siamo convinti che un clima accogliente venga percepito dal paziente. Ci sono pazienti in stato vegetativo in cui si è visto che qualche contatto con l’esterno c’è.

Ci sono stati casi di persone uscite dallo stato vegetativo che hanno testimoniato che capivano e avvertivano tutto quello che accadeva intorno a loro.

Esatto. È chiaro che, se facciamo una sedazione media o profonda, è più difficile, però dobbiamo avere presente che quella persona anche se non ci dà un ritorno verbale ci dà un ritorno per il fatto stesso di essere lì.

Tornando al problema legale, il diritto di morire è consentito ma non è legalizzato. Questo per i sostenitori dell’eutanasia è una discriminazione, perché possono morire solo quelli che corrispondo a precisi parametri, è così?

Dicono: perché questa possibilità di interrompere alimentazione e respirazione deve essere limitata a chi è in stato artificiale, e agli altri no? Ritengo sia un falso problema. Se uno decide di lasciarsi andare, va verso una debolezza progressiva che conduce comunque al coma. Una discriminazione non c’è. Dal punto di vista legale la sentenza della Consulta ha dapprima sollecitato il Parlamento a promulgare una legge, poi visto che non è stata varata, ha dato un parere molto preciso sulla situazione di Dj Fabo e casi simili.

Quindi? Le Asl come devono comportarsi di fronte alla sentenza della Corte?

In questi casi molto particolari la sentenza è cogente. Va verificato che questo distacco sia deciso da una persona che ha delle caratteristiche ben precise. Ci sono i comitati etici che devono verificare se, ad esempio, ci sono state cure palliative o se il paziente le ha rifiutate. La Consulta, a mio parere, nella molteplicità delle formazioni culturali dei giudici ha tenuto conto di più fattori possibili, cercando di circostanziare le condizioni nelle quali questo percorso è attuabile.

Assistiamo come sempre a prese di posizioni molto ideologiche. Michele Serra su Repubblica ha detto, parlando di questi due casi, che se in Italia non c’è una legge sull’eutanasia, è colpa “del mondo cattolico, l’unico ostacolo alla sua approvazione”. Che ne pensa?

Intanto va detto che il mondo cattolico non ha una presa di posizione unica sull’argomento, ma neanche il mondo non cattolico. Mi sembra una semplificazione eccessiva e le semplificazioni non sono mai corrispondenti alla realtà. Se si arriverà a una legge, e credo ci si arriverà, la sfida è affrontarla in modo pluralistico, dando vita ad alternative più affascinanti che la morte. Ci sono già, tanto è vero che dal mondo degli Hospice le richieste di eutanasia o di andare in Svizzera sono pressoché assenti.

Infatti ci sono realtà di accoglienza e sostegno che non vengono mai citate. Perché?

Va detto che anche se esistessero le migliori cure palliative al mondo, non si esaurirebbe la richiesta di morire. Il punto è che c’è una divisione culturale, quella tra l’autodeterminazione assoluta e quella che noi chiamiamo autonomia in relazione.

Sarebbe?

Significa nel secondo caso che un paziente è dentro dei rapporti, sostenuto, accudito, amato. Sicuramente è necessaria una diffusione capillare di cure palliative ben somministrate. Quest’anno, ad esempio, sarà il primo anno in cui nelle università si inaugura la specialità di medicina palliativa. Insomma, occorre lavorare perché venga offerta una possibilità reale di alternativa alla morte assistita.

(Paolo Vites)

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