Fabrizio De Andrè ha lasciato un’importante eredità alla musica italiana, grazie alle sue canzoni di denuncia e non solo. Anche per questo non mancano mai i tributi in suo onore, sia live che in televisione. Oggi, sabato 25 luglio 2020, Rai 1 trasmetterà in replica Una storia da cantare che omaggerà il celebre cantautore. Un modo per riascoltare la sua arte grazie alla voce di tanti colleghi che saliranno sul palco e per non dimenticare mai quanto De Andrè sia riuscito a rivoluzionare la musica del nostro paese. Non sempre apprezzato dalla critica, Faber è riuscito ad ottenere un successo senza pari anche grazie al disco Anime Salve, che gli ha permesso di ricevere il premio di Musica! del giornale Repubblica. “Credo che questa inaspettata sintonia di giudizio fra pubblico e critica non possa derivare altro che da una maggiore attenzione che il pubblico che ama la musica presti da un po’ di tempo a questa parte alle riviste specializzate“, ha detto il cantautore in quegli anni al giornalista Gino Castaldo, che solo di recente ha reso pubblica quell’intervista inedita. Secondo l’artista, in quel periodo le riviste dedicate alla musica avevano aperto la strada a tanti colleghi, consapevoli della differenza fra arte vera e arte falsa. “Fra arte che si lascia contemplare e arte che si fa concupire”, ha aggiunto, “però chi ha dato prova di essere veramente capace di giudizio sono i critici della canzone. Perchè giudicare una canzone è un’arte complessa”.
Fabrizio De Andrè, la differenza degli ascoltatori tra gli inizi e l’apice della carriera
Fabrizio De Andrè non lasciava nulla al caso e amava i dettagli. Così non ha potuto fare a meno di notare quale evoluzione avesse interessato i suoi ascoltatori: c’era una differenza fra chi lo seguiva dall’inizio e chi invece lo ha accompagnato in seguito all’apice della sua popolarità? Secondo il cantautore sì: “Dal punto di vista anagrafico direi che il pubblico che ha seguito i concerti andava tra i 20 e i 40 anni, a ruota c’erano fra i 40 e i 60enni e poi una modesta parte di quelli che potremmo chiamare ragazzi”, ha detto a Gino Castaldo, in un’ultima intervista prima di morire, “Direi che è un pubblico più composto, più attento, quasi un pubblico da teatro. Meno chiassoso”. Faber non era nuovo alle rivoluzioni: con il suo disco Rimini ha cambiato registro, allontanandosi dai precedenti lavori. I motivi di questo cambiamento erano molteplici: “Prima di tutto non l’ho scritto da solo, ma tutto quanto insieme a Massimo Bubola”, ha detto in quel periodo a Roberto Manfredi, “un giovane cantautore che probabilmente ha dedicato più attenzione di me alla musica, ma credo che non sia solo questa la ragione per cui lo senti diverso, finalmente non mi prendo così sul serio come in passato”. La costrizione e le pressioni in precedenza avevano spinto De Andrè a lasciare da parte l’autoironia, che invece emerge proprio in questo lavoro. “Non considero più la canzone come il mezzo per risolvere i problemi esistenziali spiccioli come vestirmi e mangiare”, ha aggiunto, “sono più libero, tranquillo e canto soprattutto quando mi diverto. Qui di sente che in questo disco ci siamo divertiti”.