Questa è una storia sulla fiducia. Le piattaforme digitali, incluse Facebook e Google, sono le dirette beneficiarie della fiducia e buona volontà accumulata in mezzo secolo dalle aziende tech che le hanno precedute. Peccato che ne abbiano abusato, secondo la tesi del libro di Roger McNamee Zucked. Waking Up to the Facebook Catastrophe. Ed è anche l’accusa mossa dai procuratori generali di 8 Stati americani, che hanno annunciato un’indagine su Facebook e a ruota anche su Google, nel convincimento che ci siano state delle falle, legalmente rilevanti, sull’asse privacy-concorrenza.



Del cambiamento di opinione verso quelle aziende eponime di Big Tech (anche Amazon è finita nel mirino), fino a ieri le darling del mercato e degli investitori, è testimone il moltiplicarsi di articoli e testi critici se non proprio ostili. In questo panorama la particolarità del libro Zucked. Come risvegliarsi dalla catastrofe di Facebook, atteso in Italia quest’autunno, è che per metà è denuncia e per metà mea culpa.



L’autore non è la solita Cassandra dell’apocalisse tecnologica. Il settore dell’hi-tech, McNamee lo conosce bene. È un investitore di alto profilo e co-fondatore assieme al frontman degli U2, Paul “Bono” Hewson, della società di private equity Elevation Partners. Con Facebook la relazione è ancora più intima. Nel 2010 ha sborsato 90 milioni per acquistare l’1% del social blu e veniva consultato dal fondatore nei passaggi delicati della storia aziendale. Come quando lo sconsigliò di cedere il controllo a Microsoft e Yahoo!, o quando svolse un ruolo cruciale per portare Sheryl Sandberg dall’amministrazione di Bill Clinton agli uffici di Menlo Park. La sua prima impressione di Mark Zuckerberg è infervorata: “Mi piaceva Zuck. Mi piaceva il suo team. Mi piaceva Facebook”.



I primi sospetti nascono durante le elezioni presidenziali del 2016. “Sono deluso, imbarazzato, provo vergogna” scrive McNamee a Zuckerberg e Sandberg. Diffidenza che si rafforza con il voto sulla Brexit. L’impressione che qualcosa stava andando storto è riassunta in questa frase apodittica: “Facebook ha connesso 2,2 miliardi di persone per isolarli”.

Secondo McNamee, il social viene utilizzato per fare leva sulle emozioni del cervello rettiliano come paura e indignazione: “Quando si è arrabbiati ci fa stare meglio sapere che anche gli altri condividono la stessa emozione”. Si realizza così la bolla dell’illusione che tutte le persone della cerchia delle mie relazioni la pensano allo stesso modo. In termine tecnico si chiama Echo Room ed è facile costruirla sulle piattaforme digitali. In seguito, lo scoppio dello scandalo di Cambridge Analytica ha svelato come venissero orientati i comportamenti individuali di 26 milioni di utenti, partendo dai dati estrapolati dai loro profili.

Questa intelligence in mano a terzi non serviva a fini accademici, bensì per centrare meglio e rendere più efficaci i messaggi propagandistici elaborati in Russia. Quale ritorno per Facebook? Per un modello di business che dipende dall’economia dell’attenzione si tratta di aumentare il coinvolgimento, insidiando i lati più deboli della psicologia umana, mirando al “cervello emotivo”. “Informazione o disinformazione sembrano la stessa cosa, l’unica differenza è che fake news e messaggi estremi sono condivisi 70 volte di più delle informazioni oggettive; per il social più click si traducono in più introiti pubblicitari”.

Il libro di McNamee è anche una storia sul privilegio, di come alcune persone, tra le più capaci e produttive, possano diventare così cieche o indifferenti delle conseguenze delle loro azioni, al punto di mettere la democrazia a rischio pur di proteggere le loro prerogative.

La regolamentazione è la strada. Prendete Google: quando l’Europa ha chiesto al motore di ricerca di smettere di usare i dati degli utenti per la sua piattaforma di pubblicità proprietaria, Google ha metaforicamente alzato le spalle. Risultato: terza sanzione ultra-miliardaria comminata a Mountain View, che dal 2017 ha totalizzato oltre 8 miliardi di multe nella Ue.

È anche una storia di tracotanza, non specificatamente di una singola azienda, ma della cultura che permea l’intera Silicon Valley, la quale per un ventennio si è sentita autorizzata a innovare e crescere in ossequio all’evocativo motto “move fast and break things” (muoviti veloce e rompi cose, che poi è di Facebook).

Persino le migliori idee, in mano anche alle persone con le migliori intenzioni, possono trasformarsi in grossi errori, secondo il classico principio dell’eterogenesi dei fini; se poi sono favorite da una miscela di capitalismo deregolamentato, di tecnologie concepite per una dipendenza by design, di autocrazia (Zuckerberg controlla il 60% delle azioni con voto), l’infosfera dominata da Facebook rappresenta una sventura per la democrazia, la salute pubblica, la privacy e l’economia nel suo complesso.

Ma nessuno era preparato a separare i problemi di ordine politico, sociale ed economico da quelli gestionali della piattaforma social.