Quanto incide Facebook sulle nostre vite? E quanto le ha cambiate? Sicuramente spesso si ravvisa una corsa al postare qualunque momento della giornata alla ricerca di un like piuttosto che di un commento. E si tende a confondere il mondo virtuale con la realtà. Ma quanto davvero questo social ha ripercussioni sulla salute mentale? Come riporta il Times un maxi studio scientifico indipendente dell’Oxford Internet Insitute si è occupato di questo interrogativo, indagando sull’impatto della diffusione mondiale del ‘capostipite’ dei social.
La ricerca, guidata dai professori Andrew Przybylski e Matti Vuorre, ha utilizzato i dati sul benessere di quasi un milione di persone in 72 Paesi su un arco temporale di 12 anni, e i dati sull’utilizzo individuale effettivo di milioni di utenti Facebook in tutto il mondo. Lo studio era già in via di definizione quindi durante la pandemia. E in base a quanto pubblicato sulla Royal Society gli autori hanno specificato non solo di non aver trovato evidenze del fatto che la diffusione di Facebook abbia un legame negativo con il benessere, anzi l’analisi indicherebbe che “Facebook è probabilmente correlato al benessere in modo positivo“, ha spiegato Przybylski.
DESIDERIO SPECULATIVO NEI CONFRONTI DI FACEBOOK?
Lo studio in questione va a ribaltare scritti accademici che finora andavano in senso opposto, ravvisando in Facebook solo effetti negativi sulla salute mentale. Non esistono però prove che dicano ciò. Anzi il sospetto avanzato dai ricercatori dello studio di Oxford è che, dietro quelle affermazioni, ci potessero essere intenti speculativi verso il noto social. Ecco quindi sfatato un falso mito.
Secondo però Przybylski “non vuol dire che questa sia la prova che Facebook è positivo per il benessere degli utenti. Piuttosto i migliori dati globali non supportano l’idea che l’espansione dei social media abbia un’associazione globale negativa con il benessere all’interno delle varie nazioni e gruppi demografici“. E per arrivare a queste conclusioni gli autori dell’indagine hanno condotto una ricerca su scala globale e analizzando tutte le fasce d’età, non concentrandosi quindi strettamente solo sui più giovani. Come poi ha concluso Vuorre “le nostre scoperte dovrebbero contribuire a orientare il dibattito sui social media verso fondamenti di ricerca più empirici”.