È difficile stabilire se fu l’ormai famosa “sentenza Bosman” del 1995, decretata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea sul trasferimento dei calciatori, a imprimere una svolta al “mercato” dei giocatori di calcio e al mondo del pallone.
Oppure se fu l’irruzione della televisione, con reti specializzate che offrivano diritti pagati lautamente alle squadre, in base agli abbonamenti che facevano, per la diretta di qualsiasi partita, prima in un solo continente e poi nel mondo intero. O ancora se furono gli investimenti sempre più alti, sia nell’acquisto, sia nel pagamento dell’ingaggio pluriennale del singolo calciatore.
Se gli spagnoli avevano il Real Madrid (la squadra del re) con alle spalle il grande Banco di Santander e il Barcellona aveva la forza finanziaria e industriale della Catalogna alle spalle, in Italia comparvero, accanto a una sorta di istituzione nazionale legata alla Fiat, la Juventus della famiglia Agnelli, i milanesi che volevano vincere e fare di Milano la regina del calcio europeo.
Negli anni Cinquanta tentò Angelo Rizzoli con il Milan, ma poi abbandonò, quindi vennero dalla parte dell’Inter prima la famiglia di Angelo Moratti, e una decina di anni dopo Silvio Berlusconi, l’inventore in Italia della televisione commerciale, irruppe con il Milan. E infine la seconda generazione nerazzurra dei Moratti con Massimo, uno dei figli di Angelo.
Per vedere le prime follie finanziarie italiane, almeno per quanto ci si possa ricordare, bisogna risalire al luglio 1975, quando il centravanti Beppe Savoldi fu ceduto dal Bologna al Napoli per la cifra complessiva (tra contanti e scambi) per quasi due miliardi di lire (un milione di euro di oggi!) e fu un record che sdoganò un mercato che sembrava non avere più limiti. Savoldi fu soprannominato “mister due miliardi” e forse da quello, insieme a tutto quanto abbiamo detto prima, fu l’inizio della “rivoluzione nel pallone” fino all’attuale pallone scoppiato di questi giorni.
Nello stesso periodo inglesi e tedeschi costruivano i loro nuovi stadi e si limitavano a operazioni tutto sommato ragionevoli. I francesi preferivano il rugby al calcio e il loro campionato era tra i meno considerati d’Europa.
Se uno cerca di dare uno sguardo complessivo al mondo del calcio dagli anni Ottanta fino ai giorni nostri, anche dopo la crisi finanziaria del 2009 e alla tragedia della pandemia, che pure ha chiuso per un certo periodo campionati e stadi, si trova di fronte a una follia dove quello che veniva definito “il gioco più popolare del mondo” non esiste più e dove la concentrazione della ricchezza in poche mani ripete schemi di sfrenato capitalismo che sembrano il preludio di un collasso.
Facciamo una fotografia del panorama calcistico degli anni venti del 2000. Ci sono tre potenze incontrastate: la prima è quella di Nasser Al Khelaifi, presidente di una squadra con poca storia calcistica, il Paris Saint-Germain, che è anche presidente a amministratore delegato del Fondo sovrano del Qatar.
L’anno scorso, questa squadra di autentici fenomeni ha perso anche il modesto campionato francese di fronte al Lille. Ma oggi ha costruito una squadra che conta i più grandi giocatori del mondo, con un monte ingaggi che pare incalcolabile. Ufficialmente, l’ex giocatore del Barcellona, Lionel Messi appena sbarcato a Parigi, guadagnerà, solo d’ingaggio, in due anni 80 milioni di euro, ma in più, piccolo particolare delle ultime ore, in una sola giornata la maglietta del Saint-Germain con il nome Messi è stata venduta a 832mila acquirenti per un approssimativo totale di 132 milioni di euro.
I calcoli dei prezzi e degli ingaggi dei calciatori, da Neymar a Ramos a Donnarumma (e chi ne ha più metta) sono realisticamente incalcolabili. Oggi il Psg ha fatto diventare il “gioco più popolare del mondo” un oligopolio.
La seconda realtà si chiama Manchester City, che ha soppiantato persino il più nobile, calcisticamente, Manchester United. Il City ha come presidente un emiro di Abu Dhabi che si chiama Khaldun al Mubarak e non si pone mai problemi di spesa a cominciare dall’allenatore che è Josep Guardiola, ex giocatore spagnolo che non si scomoda per 20 milioni di euro all’anno. In questo modo il Manchester City è diventato al momento il secondo oligopolio del calcio mondiale.
Ma arriva subito la terza realtà. È una squadra che porta il nome di uno dei più eleganti quartiere di Londra, Chelsea, e di cui è presidente Roman Abramovich, un russo che se emigrò dall’Urss comunista, diventato ipermiliardario per gli “strani scherzi” che si crearono con la caduta del Muro di Berlino, la perestroika e la glasnost e soprattutto la burocrazia partitocratica di quel “mondo di sogni disastrosi”. Abramovich dovrebbe avere studiato alle elementari, alle medie e all’università la teoria di Marx, nella rabbiosa versione marx-leninista. Eppure è diventato un altro oligopolista del mondo del pallone. Ultimo acquisto? L’interista Lukaku per 125 milioni di euro, più altre quisquilie che si aggirano sui 70 o 80 milioni di euro.
Ora, che un simile sistema oligopolistico governi il calcio mondiale e globalizzato è un fatto che appare paradossale, figlio persino di una pseudocultura di matrice liberale, ma anche il frutto dell’avidità di un mondo che guarda solamente all’accumulazione del denaro e in più è figlio diretto di un’inenarrabile ipocrisia perché il calcio, appunto, veniva (ancora recentemente) definito uno sport popolare, quello che ricordava l’infanzia e l’adolescenza, quando si giocava sui prati di periferia o per la strada, facendo i pali delle porte con le cartelle di scuola.
Se si guarda all’escalation di questa deriva trainata dai soldi, ci stanno quasi tutti i fattori che abbiamo citato: la sentenza Bosman, il ruolo della televisione, il desiderio di notorietà con risvolti economici e anche politici, di influenza. Quello che stupisce è come questo fenomeno non sia mai stato controllato, quanto meno salvaguardato nei suoi aspetti più paradossali. Ma come è possibile che un giocatore di calcio possa guadagnare solo d’ingaggio 20 milioni di euro all’anno?
In fondo nella National football league americana e persino nel grande campionato di basket d’oltreatlantico, in una cultura fortemente competitiva e certamente liberista, si sono posti limiti agli ingaggi e altre regole.
Il tentativo europeo e mondiale del calcio ha raggiunto il paracomico con il cosiddetto fair play finanziario e con le false prediche del presidente dell’Uefa Aleksander Ceferin, lo sloveno creatore (involontario) degli oligopoli. Il colmo lo raggiungerà presto facendo svolgere il prossimo mondiale calcistico nel Qatar di Nasser El Kalaifi, con stadi costruiti nel deserto.
Il fatto più ipocrita è che quando si profilavano nettamente i tre oligopoli, ben 12 squadre di prestigio storico contrapposero un campionato europeo di “superlega”. Forse il problema fu posto male e andava rivisto e ridiscusso, ma che Ceferin, insieme a tanti capi di Stato, difendessero il calcio come sport popolare era quasi grottesco.
Difficile sapere come il pallone andato nel pallone tornerà a una normalità accettabile. C’è ormai una crescente disaffezione anche tra i giovani e la scomparsa di vecchie squadre di calcio che hanno fatto la storia di questo sport.
Intanto facciamo un piccolo conto che dovrebbe richiamare alla realtà il mondo degli oligopoli vincenti. Mentre nel mondo crescono le disuguaglianze, mentre crescono nuove povertà, per mantenere oggi una media squadra di calcio nella serie A italiana occorre mettere in preventivo, nella maggioranza dei casi una perdita annua di 200 milioni di euro.
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