Si espande la piaga dei “fake paper“, gli articoli scientifici falsi. L’avvento dell’intelligenza artificiale non aiuta, come dimostra anche un recente studio italiano. Il fenomeno è preoccupante. Basti pensare allo scandalo del luglio 2022, quando la prestigiosa rivista Science scoprì che un paper molto importante sull’Alzheimer, che era stato pubblicato nel 2006 su Nature influenzando tutta la ricerca successiva sul tema, aveva immagini falsificate. Emersero oltre 20 paper sospetti dello stesso neuroscienzato Sylvain Lesné e oltre 70 immagini apparentemente ritoccate. Visto il fenomeno dilagante, il neuropsicologo Bernhard Sabel ha creato un fake-paper detector, usato per analizzare 5mila paper. Ebbene, è arrivato alla conclusione che fino al 34% di quelli neuroscientifici pubblicati nel 2020 potrebbero essere plagio o del tutto inventati. In ambito medico, la percentuale si aggira sul 24%.



Questa scoperta, spiega il Sole 24 Ore, conferma il sospetto che le riviste scientifiche siano infestate da studi provenienti da paper mills, organizzazioni illegali che spesso si trovano in paesi come Cina, Iran e Russia e che vendono paper fraudolenti ai ricercatori. L’editore scientifico egiziano Hindawi, ad esempio, ha chiuso ben quattro riviste “infestate”. Il fake-paper detector di Sabel si basa su due indicatori: l’uso di mail private degli autori e l’affiliazione ad un ospedale anziché ad un’istituzione accademica. Criteri però deboli, che possono indurre molti falsi positivi. Comunque, a guidare la battaglia contro i fake papere c’è l’International Association of Scientific, Technical, and Medical Publishers (Stm), che raggruppa 120 editori (come Elsevier, Springer Nature e Wiley). Ha creato un Integrity Hub per sviluppare detector e metodi di identificazione efficaci.



“ARTICOLI SCIENTIFICI FALSI? SERVE UNA RIFORMA”

Non si può arrivare alla totale automazione del processo, che richiede sempre l’intervento umano, e di sicuro è una “toppa”, ma è pur sempre un buon inizio. Nel frattempo, bisogna lavorare a profonde riforme strutturali. «La configurazione delle carriere nel mondo della ricerca accademica è caratterizzato da svariate storture che non concorrono alla qualità della ricerca, in particolare per quanto riguarda il meccanismo di pubblicazione delle ricerche effettuate, che ha un ruolo centrale nella progressione delle carriere scientifiche», osserva Rosa Fioravante, segretaria dell’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) al Sole 24 Ore. Pesa anche l’estrema precarietà professionale di gran parte dei ricercatori nelle prime fasi delle loro carriere. «L’esigenza di raggiungere una stabilità professionale, unita all’ingenuità di alcuni dei ricercatori più giovani, può far cadere i diretti interessati nelle mani dei predatory journals – riviste fraudolente che ingannano i ricercatori per ottenere denaro, oppure li può far ricorrere alle paper mills», aggiunge Fioravante.



Ci sono anche pratiche legali da un punto di vista formale, ma poco etiche, come lo slicing, cioè ricavare più paper dalla stessa banca dati anziché un paper solo. C’è poi una questione molto delicata che riguarda le case editrici scientifiche. «Esse costituiscono un oligopolio che impone le proprie condizioni economiche agli studiosi che vogliono pubblicare. Anche l’open access (ossia la pubblicazione di paper liberamente accessibili a chiunque), teoricamente vantaggioso per la condivisione scientifica, spesso richiede pagamenti onerosi per pubblicare, di modo che possono farlo solo coloro che fanno parte di istituzioni ben finanziate». Dunque, per Fioravante c’è un accentramento del sapere, a cui contribuisce un meccanismo: «Anche ricerche finanziate con fondi pubblici vengano pubblicate sui journals di grandi case editrici alle quali le istituzioni universitarie devono poi pagare l’abbonamento o l’accesso nuovamente per consultare lo stato del dibattito».