I lettori di questa testata hanno letto numerose mie recensioni di Falstaff, ultimo capolavoro di Giuseppe Verdi. In questa nota sul nuovo allestimento in scena al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, tratto, quindi, solo delle caratteristiche, a mio avviso salienti ed innovative della produzione, ipotizzando che vicenda ed origini shakespeariane siamo ben note.
Una breve premessa: nel 1893, a ottanta anni, Verdi rivoluzionò il teatro in musica, le cui convenzioni ed i cui stilemi erano già stati travolti pochi anni prima, nel 1890, da Cavalleria Rusticana del giovane Pietro Mascagni. A differenza di Cavalleria che aprì le porte ad uno stile, il verismo, che in Italia dominò il teatro musicale per alcuni decenni, il Falstaff del “vecchio” Verdì lanciò un messaggio che venne colto solo dopo trenta anni da “innovatori” come Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Luigi Dallapiccola e che oggi permea molta musica moderna, soprattutto americana. Fu Casella, credo, il primo a riconoscerlo. Verdi, da un lato, si riallacciava al “recitar cantando” del teatro in musica del cinquecento e seicento – completamente dimenticato dalla seconda metà del settecento – e da un altro apriva la porta a quello moderno in cui – come ha acutamente scritto Emilio Sala – “si sonorizzano le parole”. La distanza dal melodramma dell’ottocento – anche da quello “verdiano” – è immensa ed è pure dal sinfonismo di quella che nel 1890, o giù di lì, si chiamava “la giovane scuola”: la parola e la musica si fondono perfettamente, come nel “recitar cantando” e come nella musica contemporanea. Tranne un breve arioso di Ford ed una romanza di Fenton non ci sono “pezzi” o brani da estrapolare per concerti, o per fare applaudire il cantante, ma polifonia, ampio uso di mezze voci ed una teatralità assoluta. Come nel dramma o nella commedia in musica contemporanei.
Unicamente i grandi direttori musicali sanno cogliere tutta l’innovazione che Falstaff, pur ricollegandosi alle origini del teatro in musica contiene. A Firenze lo hanno fatto Carlo Maria Giulini nel 1983 e Zubin Mehta nel 2006 e nel 2014. Alla Scala, Antonino Votto nel 1967 e Daniel Harding nel 2013. Sir John Elliot Gardiner (specialista del barocco e di cui ricordo un’incisione dell’opera circa vent’anni fa) li supera proprio grazie alla sua vasta esperienza con la musica del cinquecento e del seicento. Non solo la cifra della produzione è il “recitar cantando”, ma l’interazione tra buca e palcoscenico è perfetta, il contrappunto magistrale, la polifonia accuratissima.
C’è una differenza profonda, però, per restare a Firenze tra le letture di Giulini e di Mehta e questa di Gardiner. Le prime due erano impregnate di malinconia (per semplificare è il Va vecchio John a dare il tono al lavoro) mentre Gardiner sin dall’inizio guarda alla magnifica fuga (Bach, allora dimenticato, rilanciato da Verdi) ed al lieto scetticismo del Tutto il mondo è una burla finale, un congedo dalla composizione (e dalla vita) inimitato ed inimitabile.
Gardiner dispone di un cast di grande livello: Nicola Alaimo, Simone Piazzola, Matthew Swensen, Christian Collia, Antonio Garés compongono il gruppo maschile; Ailyn Pérez, Francesca Boncompagni, Sara Mingardo, Caterina Piva il quartetto femminile. Molti (soprattutto tra le voci femminili) con lunga esperienza di musica barocca.
Gardiner dispone anche di un’ottima regia (Sven-Eric Bechtolf, a lungo direttore della drammaturgia al Festival di Salisburgo) e di scene (Julian Crouch) e costumi (Kevin Pollard) che ci portano nel Regno dei Tudor. Mille miglia lontani dalle fantasticherie della Fura dels Baul o dalle proiezioni ossessive di Davide Livermore. Anche grazie alle efficaci luci di Alex Brock e dagli eleganti, e contenuti, video di Josh Higgason, si entra immediatamente nello spettacolo.
Ovazioni e richieste di bis al calar del sipario. Tutta la compagnia ha risposto replicando la fuga finale.
Purtroppo molto file erano vuote. Il Teatro è stato costruito per ospitare 1800 spettatori (una dimensione forse eccessiva per la sola Firenze, ma sperando di attirare, come in passato, pullman di appassionati dal resto di appassionati dalla Toscana ed anche dall’Umbria). Purtroppo, la pandemia scoraggia ad andare a spettacoli dal vivo.