Caro direttore e cara Violetta,
non vogliamo far cadere la provocazione che ci è stata lanciata: se abbiamo deciso di scrivere è proprio per il desiderio di metterci a confronto su tutte le sfumature e posizioni che questo momento culturale sta facendo emergere.
Sono infatti proprio quei pensieri dominanti, in cui anche noi spesso ci sentiamo immerse, ad averci fatto alzare la testa. Forse siamo una voce fuori dal coro, ma siamo fermamente convinte che ogni individuo a questo mondo non solo possa fare la differenza, ma possa essere, anzitutto, a partire dal suo piccolo, il motore del cambiamento culturale di cui parliamo e che crediamo sia possibile.
Non rinunciamo quindi a credere che si possa costruire insieme una società che non ostacoli – se non vieti – la possibilità ad una madre di scegliere di lavorare se lo desidera o se ritiene che la professione che ama sia una dimensione fondamentale per la propria crescita, non solo professionale, ma anche e soprattutto umana (il lavoro nobilita l’uomo, e non ce ne vogliate, anche la donna!). Non è nel nostro interesse rivendicare diritti che una volta raggiunti lasciano il tempo che trovano, se non inseriti in un tessuto culturale e sociale che li condivide.
Tuttavia, al di là di argomentazioni basate su desideri di soddisfazione professionale personale, per tante e tanti di noi non è possibile scegliere tra il lavoro e l’essere madre o padre: contribuire economicamente alla famiglia è necessità.
E se anche fosse conveniente (perché anche di convenienza economica si parla nel decidere di fare “solo” le mamme) questo non è possibile, perché purtroppo per noi la generazione d’oro degli anni 90 è ormai un bel ricordo: inserirsi nel mondo del lavoro a 40 anni non è più così facile.
Certo si parla di sacrifici, lo viviamo sulla nostra pelle in qualità di genitori. Ma allora ci domandiamo: perché siamo immerse in una cultura così patriarcale che non contempla la natura delle neo-famiglie? È forse sbagliato che una donna che diventa madre voglia continuare a mettere a frutto ciò che ha imparato sul campo e nel percorso di studi per contribuire alla crescita della propria famiglia e della società? Per noi questo è quotidianità e non una scelta.
Avere la grazia di mettere al mondo un figlio è un’esperienza che ti cambia profondamente, che migliore molti aspetti della persona, mettendoti a confronto con una vita nuova…
Ci sono molti paesi europei che propongono un modello culturale per cui la nascita è un valore per il semplice fatto che è una vita nuova: dove è possibile lavorare fino alle 17:00 mantenendo alte performance in termini di risultati (e parliamo di modelli di lavoro di multinazionali!) o dove è consentita una condivisone del periodo di maternità con il padre, così da evitare lunghe assenze dal lavoro (come accennava nella sua lettera).
Infine: per noi i luoghi educativi sono un punto fondamentale nella dimensione di crescita umana, sociale, cognitiva del bambino/ragazzo e, per osmosi, della famiglia.
Sicuramente molte di noi prendono in considerazione di lasciare bambini di pochi mesi in “parcheggi per bambini” (e ci vorremmo sbilanciare dicendole che è una definizione davvero agghiacciante). Ma perché voler investire nell’istruzione dei propri bambini – che si abbia o meno un’alternativa! – deve essere visto come un mero “parcheggiare”? Perché una mamma deve essere costretta a vivere alternando un perenne senso di colpa di non riuscire a prendersi cura del proprio figlio a quello di non essere abbastanza presente sul lavoro?
Per questo quello che desideriamo è che si investa nell’educazione, nell’istruzione, nello sviluppo di progetti di doposcuola, di realtà aggregative, sportive, ludiche che non siano un ennesimo costo da sostenere per le famiglie (e un lusso per chi se li può permettere), ma che anzi possano essere inserite in un welfare lungimirante ed al passo coi tempi (in cui appunto le mamme non riescono ad essere alle 14:00 fuori da scuola, con la merenda in mano).
La mobilitazione delle energie familiari è essenziale per la costruzione del futuro della nostra nazione ed è indispensabile che la tanto invocata parità di genere si traduca in misure che consentano alle famiglie di coinvolgersi nella vita istituzionale, economica e sociale del paese, che richiede di dedicare il tempo necessario al lavoro e, al contempo, formare individui che possano guardare al futuro con ragione e speranza.
L’illusione vera, forse, è proprio quella di poter continuare ad andare avanti con una benda sugli occhi approvando una realtà in cui sono presenti più incentivi per una mamma che rinuncia alla propria occupazione (Naspi, reddito di cittadinanza, sussidi vari) rispetto agli aiuti alle donne che sostengono molti più costi e sacrifici per poter proseguire il proprio lavoro. Forse c’è qualcosa che non funziona. Forse i sostegni non sono indirizzati nel modo più conveniente, economicamente e demograficamente.
Prendersi cura della famiglia e delle madri lavoratrici significa guardare al bene comune. Una società dove non nascono più i bambini è una società senza futuro!
Un Paese che investe in istruzione pubblica e sforna, come sappiamo, più laureate che laureati, ma poi non è in grado di impiegare nel suo sistema le risorse che ha formato, è un Paese che non sarà mai in grado di risollevarsi ed essere competitivo, con gravi conseguenze sul piano economico e sociale per tutti.
Pertanto, la questione non riguarda solo scelte che la donna o la famiglia deve fare, ma l’intera società. Un proverbio africano, caro a Papa Francesco, dice che “per educare un bambino serve un intero villaggio”. Ma dobbiamo costruirlo, questo villaggio! E questo cambiamento non può che interessare a tutti.
(Martina Brusa, Giuditta Sartori, Eleonora Oliva, Giulia Forcellini, Chiara Villa, Francesca Ruoti)
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