La riduzione del tasso di natalità italiana sta assumendo contorni drammatici, con effetti che possono compromettere qualsiasi prospettiva di crescita della nostra economia e la sostenibilità delle prestazioni sociali. Il punto sulle proiezioni demografiche per la nostra comunità nazionale è stato fatto dal Presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo nel corso degli Stati generali sulla natalità, convocato nei giorni recenti dal Forum delle famiglie e dalla Fondazione per la natalità.
Nello scenario negativo tracciato dall’Istituto di statistica nazionale, basato sul proseguimento dell’attuale tasso di fecondità per ogni donna fertile (1,23 figli), la popolazione italiana è destinata a diminuire di 5 milioni entro la metà del secolo in corso per effetto di una progressiva contrazione del numero annuale delle nascite dalle attuali 400 mila a 298 mila. Il declino demografico comporta una parallela riduzione della quota delle persone in età di lavoro fino al 52% di quella totale, con la metà dei cittadini in grado di lavorare che dovrà farsi carico del sostentamento di quella restante, composta per il 36% da persone ultrasettantenni, pensionati e grandi utenti del sistema sanitario. Numeri da brividi, e come tali da mettere al centro delle iniziative politiche.
Le misure suggerite dal Presidente dell’Istat e da altri studiosi, fatte proprie dal Forum delle famiglie, vogliono cercare di invertire la rotta, per riportare gradualmente la media annuale delle nuove nascite oltre il mezzo milione. Un obiettivo estremamente ambizioso, realizzabile alla condizione di un forte aumento dei nuclei familiari che decidono di avere un terzo figlio. Ma che rimane al di sotto del numero delle nascite del 2007 (570 mila), l’anno che precede il ciclo delle grandi crisi economiche. Numeri che confermano non solo la gravità ma anche la rapida gravità del declino demografico in corso, con effetti negativi che si stanno manifestando apertamente nel mercato del lavoro e sulla sostenibilità delle prestazioni sociali.
Come noto, il tema è diventato oggetto di un importante provvedimento parlamentare, la legge delega n. 32 meglio nota come Family Act, approvata il 6 aprile u.s.. Il provvedimento contiene 5 linee guida di intervento (sostegno all’educazione dei figli, estensione dei congedi parentali, incentivi per l’imprenditoria femminile, per la conciliazione tra lavoro e famiglia e per favorire l’autonomia dei giovani) da attuare con diversi decreti da parte dei Governi in carica nel corso dei prossimi due anni, sulla base di coperture finanziarie ancora da reperire per gli scopi indicati.
La parte più rilevante della proposta originale della legge delega è stata già attuata con l’introduzione dell’Assegno unico (AU) per il sostegni dei figli minori, di quelli privi di occupazione fino ai 21 anni e dei disabili senza limiti di età. L’AU è stato esteso alle famiglie fiscalmente incapienti e a quelle dei lavoratori autonomi che non beneficiavano degli assegni familiari e delle detrazioni fiscali per i figli. Misure che vengono soppresse e sostituite dell’assegno unico, anche per i lavoratori dipendenti. L’importo economico dell’AU viene definito sulla base delle caratteristiche del nucleo familiare e delle condizioni di reddito e patrimoniali valutate sulla base dei requisiti previsti dall’Isee, nell’ambito di importi che possono oscillare tra i 250 euro mensili, maggiorati ulteriormenteiper le persone disabili, e i 50 euro per le famiglie con Isee superiore ai 40mila euro lordi anno e per quelle che non intendono presentare la dichiarazione Isee.
Nella fase della prima attuazione l’Inps, ha comunicato che l’assegno unico è già in corso di erogazione per circa 4,5 milioni rispetto ai 7 milioni dei potenziali beneficiari. Il provvedimento adottato è stato oggetto di polemiche per l’introduzione dell’Isee che riduce di fatto l’impatto universale dell’Assegno unico, condizionandolo all’andamento congiunturale dei redditi familiari e indebolendo la certezza della prestazione. Una condizione che per una parte significativa dei lavoratori dipendenti può comportare delle perdite economiche rispetto al valore delle precedenti prestazioni. Secondo il parere degli esperti, il provvedimento rappresenta un primo passo per ridurre le distanze rispetto ai sostegni per le famiglie vigenti nella gran parte dei Paesi europei, ma l’impatto effettivo sulla ripresa della natalità rimane condizionato dall’attuazione coerente, e simultanea delle misure previste nel Family Act.
Gli obiettivi di potenziare la disponibilità di asili nido e di rafforzare gli incentivi sono già stati attivati con l’utilizzo delle risorse del Pnrr. Ma nell’insieme la distanza tra la gravità del problema e la congruità dei provvedimenti messi in campo per cercare rimedi rimane sostanzialmente inalterata. Rispetto alle buone pratiche di molti Paesi europei, l’impatto demografico sulle politiche economiche viene del tutto trascurato, nonostante una notevole letteratura sulla materia dimostri ampiamente la relazione esistente tra l’andamento della natalità e la crescita dell’economia.
Nel caso italiano si tende a considerare il fenomeno della denatalità come una conseguenza dell’aumento della precarietà lavorativa, in particolare dei giovani e delle donne, trascurando il fatto che questa tendenza coinvolge anche i comportamenti dei ceti più abbienti, ed è principalmente la conseguenza di un mutamento dei valori e degli stili di vita, legati a un modus vivendi che tende a marginalizzare la funzione generativa, e l’assunzione delle responsabilità familiari, soprattutto nelle società prospere.
La carenza di politiche adeguate in grado di sostenere gli oneri crescenti per il mantenimento e per l’educazione dei figli è il frutto di scelte che hanno dirottato un’abbondante mole di risorse pubbliche nella direzione di assecondare diritti individuali e privilegi corporativi. L’ultimo stadio di questa deriva è la retorica sulla povertà dilagante in Italia che ha motivato lo spreco di centinaia di miliardi nel corso ultimi 15 anni con risultati fallimentari.
L’invecchiamento della popolazione comporta, esso stesso, un mutamento della domanda politica, la sovraccarica di richieste di tutele e di sicurezza, accorcia l’orizzonte delle scelte di investimento delle famiglie e della collettività così da influenzare le caratteristiche antropologiche della stessa comunità. Aumenta il debito pubblico, ma in parallelo si incrementano i conti correnti privati delle famiglie e delle imprese. Si riduce la popolazione attiva, ma aumenta la disoccupazione volontaria. Sono in costante deterioramento tutti gli indicatori che rivelano il grado di intraprendenza della Comunità nazionale. In poche parole, abbiamo rinunciato a investire sul nostro futuro.
Per invertire la rotta servirebbe un robusto concorso di intenti e di risorse rivolto a rendere prioritario e sostenibile l’esercizio della responsabilità familiare. Analogamente a quanto fatto, con ottimi risultati, dalla Germania nel corso dell’ultimo decennio.
Ma al di là delle parole e dei sostegni di rito da parte dei principali esponenti politici, che non sono mancati anche nel corso dei lavori degli Stati generali per la natalità, nei programmi delle maggiori forze politiche degli ormai fantomatici centrodestra e centrosinistra la ricerca e la destinazione delle risorse per attuare il Family Act è del tutto assente. Continuano a promettere improbabili riduzioni della tasse e persino a esaltare in modo grottesco le passioni popolari per i cosiddetti diritti civili delle svariate tipologie di genere e di sesso.
Fuori dai circuiti dei convegni animati dagli intellettuali e dalle associazioni cattoliche, il tema della valorizzazione del ruolo sussidiario delle famiglie e delle politiche rivolte a rigenerarlo è del tutto assente. Probabilmente la mancanza di una solida offerta politica in grado di farsi carico del problema è anche la conseguenza della marginalità politica del mondo cattolico.
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