Un abbraccio, un viaggio, una mail, un invito. Al fuoco dell’accoglienza non servono tizzoni ardenti, bastano piccole scintille, fatti casuali e non voluti, per farlo divampare. Magari senza eccessivo clamore, ma il suo calore “scalda” non solo chi quel gesto accetta di viverlo, ma anche gli altri, amici abituali o incontri fugaci, fino ad arrivare –  come raccontano alcune testimonianze nate nell’alveo dell’esperienza di Famiglie per l’Accoglienza – a poter “cambiare anche i destini” di un intero paese. In tempi in cui l’accoglienza dell’altro, del diverso sembra un’impresa ardua, non mancano le storie e le avventure di chi – pur con i suoi limiti – ha saputo aprire le porte di casa (e il cuore) a un rifugiato, a bambini profughi di guerra, a una giovane musulmana o a una figlia nata con disabilità. Ma non si sentono per nulla eroi, né uomini e donne eccezionali. Perché? Semplice, anche se a volte faticoso, ma sempre affascinante: il miracolo dell’ospitalità è una questione di sguardi, dentro una compagnia che non ti lascia solo.



Un abbraccio rassicurante

Paolo, dopo aver lavorato per 35 anni nel reparto di terapia intensiva neonatale dell’Ospedale di Monza, oggi fa il medico pediatra e segue una quindicina di ragazzi down, oltre a presiedere un’associazione, “Amici di Giovanni”, confluita una ventina di anni fa in Famiglie per l’Accoglienza: raccoglie circa 50 famiglie, in Italia ma anche in Svizzera e in Spagna, che hanno figli, naturali o adottati, con disabilità e che si sono messe assieme in un’amicizia operativa per aiutarli nell’educazione. Paolo ha quattro figli: Cecilia, Simone, Luca e Agnese, 27 anni, nata con la sindrome di Down, che “vive ancora in casa con noi”. Mai si sarebbe aspettato, lui neonatologo, abituato a fare le diagnosi ad altre partorienti, che sarebbe potuto accadere anche alla sua famiglia.



“Quando è nata Agnese mi sono trovato nei panni del pediatra che assisteva mia moglie e in quelli di padre. Il primo momento è stato di shock, la sensazione che ti cade addosso il mondo”.

Ma è bastato “lo sguardo di mia moglie. Ha preso subito in braccio Agnese: un gesto di accoglienza totale, che per me è stato rassicurante. Cominci a guardare tua figlia e l’accetti: l’accetti quando l’abbracci. È il primo passo”.

Da quel momento però non scatta, come per magia, il cambiamento. “Per fare questo c’è un cammino, non avviene di colpo, in mezza giornata. Avviene dentro una compagnia umanamente solida, che cammina al tuo fianco per farti capire che questo è un dono e un mistero. E questo miracolo, davanti a tua figlia che in ogni cosa ha un passo diverso dagli altri o davanti agli altri figli che l’accolgono come inserita dentro la normalità della vita, avviene tutti i giorni”.



Questa capacità di accoglienza si genera da sola, è puro atto di abnegazione, di eroismo? “Tutt’altro. Davanti alla pediatra, una delle prime che seguiva i bambini down, che mi venne incontro dicendomi ‘Non metterti le mani nei capelli’, ho subito pensato: adesso devo stare il più possibile con i miei amici. Da quel momento loro hanno aiutato mia moglie e me ad approfondire la strada che mi è venuta incontro”.

Voltandosi indietro per riguardare come un flash questi 27 anni, Paolo non pensa certo alla fatica, che pure c’è stata, eccome: “Prevale una letizia nel vedere come i miei figli tuttora fanno compagnia ad Agnese e come si è rinsaldata la famiglia.

In questi 27 anni ho imparato che non si può vivere la vita solo appoggiandosi sulle proprie forze, bisogna affidarsi a una compagnia umana che ti fa stare dentro la vita con uno sguardo capace di superare i momenti difficili e di farti apprezzare le bellezze di cui uno non si accorgerebbe. Altrimenti uno vive da disperato”.

Nel suo lavoro di pediatra Paolo incontra coppie che oggi si trovano nella stessa situazione. A loro propone lo stesso metodo che ha incontrato lui con Famiglie per l’Accoglienza: “Innanzitutto, offro un aiuto concreto, una vicinanza, un consiglio che stanno dentro nell’atto stesso del curare. E poi li invito ad aggregarsi a questa compagnia, da cui si impara a stare assieme in modo diverso, perché la nascita di un bambino con una disabilità mette davanti a un bivio inevitabile: o si entra in crisi oppure si stringe il rapporto fra i genitori, rendendolo più maturo. E l’esperienza mi dice che è meglio questa seconda strada”.

Una mail dall’America

“Era il 2016, papa Francesco aveva da poco invitato le parrocchie ad ospitare i migranti. Una sera, un nostro amico che vive da anni in America ci scrive una mail: fateci sapere se possiamo fare qualcosa, magari raccogliamo dei soldi, quello che può servire lo facciamo volentieri. Io e mio marito ci siamo guardati in faccia: noi, così vicini al problema migranti, non ci eravamo neanche posti il problema, e questo amico lontano se ne è invece fatto carico in maniera così seria. Ci ha fatto cambiare atteggiamento. Il guardarci in faccia è stato decisivo, ci ha come risvegliati”.

Laura, madre di 5 figli, dai 12 ai 23 anni, racconta così il motivo che l’ha spinta a ospitare in casa con la sua famiglia Modou, un rifugiato del Senegal, un ragazzo che aveva perso subito i genitori, emigrato a 13 anni dal suo paese con un amico e approdato in Italia dopo un viaggio lungo tre anni.

Proprio in quei giorni Famiglie per l’Accoglienza aveva deciso di rispondere a un invito del Comune di Milano per un progetto, chiamato “Rifugiato in famiglia”, in collaborazione con Caritas Ambrosiana, che potesse offrire un passaggio temporaneo (4-6 mesi) in famiglia a giovani rifugiati maggiorenni, così da mettere loro a disposizione un’occasione per affrontare meglio la realtà e rafforzare la loro maturità.

Alla fine Modou, all’epoca diciottenne, “è stato con noi poco più di un anno. Siccome i sei mesi finivano quando aveva in previsione l’esame finale della scuola professionale, gli assistenti sociali ci avevano chiesto di prolungare di qualche mese l’ospitalità”.

Ricorda Laura: “Pur non essendo la prima accoglienza di stranieri, i nostri figli, specie il maggiore, hanno accolto Modou con fatica e anche noi avevamo delle obiezioni, che abbiamo superato pensando alla nostra esperienza. Siamo stati stranieri in un altro paese, perché nel 2004 siamo rimasti un anno negli Stati Uniti. Nel nostro piccolo abbiamo fatto esperienza di cosa vuol dire essere accolto in un posto straniero dove non conosci nessuno. Questo ci ha aiutato ad aprire la porta di casa”.

Laura ci tiene subito a precisare un punto importante: “Non si può mai dire che un’accoglienza va bene o va male, tutte le accoglienze vanno bene. Ci possono essere esperienze gratificanti, nel senso che ti danno un riscontro positivo da subito. Altre sono più faticose, ma solo perché richiedono maggiore pazienza. Alla fine però a casa entra il mondo, conosci realtà che neanche uno si immagina e che ti aiutano a non dare per scontata la fortuna che abbiamo noi”.

L’esperienza, però, parte in discesa, Modou sa farsi voler bene, il rapporto con il figlio maggiore si scioglie da solo. Basta non essere soli: “L’accoglienza è qualcosa che abbiamo dentro tutti, ma ci vuole qualcuno che te la faccia venir fuori. Occorre essere accompagnati e condividerla con qualcuno. Attorno a Modou si sono mosse e commosse molte persone: da chi si è dato da fare per trovargli i vestiti, all’amico dentista che gli ha sistemato i denti gratis”.

E Laura non dimentica certo il supporto di Famiglie per l’Accoglienza: “Anche solo confrontarsi con gli altri è un richiamo continuo al senso e al significato di quel che vivi, specie quando tutto ti è meno chiaro perché sei più sommerso dalla fatica”.

L’anno trascorso con Modou ha lasciato un segno: “Ho capito che ospitare non è solo aprire le porte di casa, perché non è fare volontariato per qualche ora o per qualche giorno alla settimana, ma essere presenti e disponibili 24 ore su 24. Ospitare è entrare in un rapporto, dedicare tempo e interesse”.

E oggi? “Abbiamo guadagnato un figlio in più: Modou vive da solo, ha il suo lavoro da aiuto cuoco, ci viene a trovare la domenica, talvolta facciamo le vacanze insieme. Oggi è infinitamente grato, ci chiama mamma e papà. È vero, è un’abitudine in Africa, ma sappiamo che per lui siamo davvero la sua famiglia”.

Un viaggio a Gerusalemme

Paola, insegnante di religione, nell’estate 2017 si trova a Gerusalemme, “per la prima volta in Terra Santa a studiare con una mia docente, ebrea, della Facoltà teologica di Milano”. Sono giorni di tensioni fra israeliani e palestinesi e giorni di incontri umanamente molto intensi. Riceve una delle tante mail con cui Famiglie per l’Accoglienza diffonde le richieste di ospitalità e resta colpita dalla possibilità di ospitare una ragazza di tradizione musulmana. “La proposta, la primissima di accoglienza in famiglia, è stata subito accettata da mio marito e da mia figlia”.

Dalila, oggi 22enne, è originaria del Marocco, ma è arrivata con la famiglia in Italia quando aveva 8 anni. Alcuni amici, con cui era entrata in contatto, le suggeriscono di venire a studiare a Milano. Non avendo la possibilità economica di pagarsi gli studi né di mantenersi, Famiglie per l’Accoglienza propone un periodo di ospitalità presso una famiglia. Dalila resta nella famiglia di Paola per due anni, poi decide di andare a vivere in appartamento con altre studentesse, “cosa che prima non si sentiva di fare” e presto si laureerà in Scienze politiche.

Cosa ha voluto dire aprire le porte di casa a una persona così diversa? “Ci siamo ripromessi fin da subito di farla sentire pienamente a casa e questo ha voluto dire piegare i dettagli della giornata, per esempio il cibo, perché si sentisse completamente a suo agio. E all’inizio tendevo a evitare gli scontri per avere una convivenza pacifica”.

Ma ospitare una maggiorenne che, a differenza di quel che succede con i vincoli previsti dall’affido o dell’adozione, può scegliere in qualsiasi momento di andare da un’altra parte, mette ben presto Paola di fronte a un “rischio enorme: non riuscire a dire dei no, quando sembrava adeguato farlo. Pian piano però ho cominciato ad accorgermi che lei mi stava a cuore, ci tenevo alla sua persona, ai suoi esami. Da lì ho iniziato a essere più libera”.

Finché arriva la svolta decisiva. “Un pomeriggio, alla vigilia di un esame importante, dopo che Dalila la sera prima era stata al cinema tornando a orari impossibili, l’ho trovata sdraiata sul divano. Sono stata molto dura nel ricordarle che il tempo non si spreca così. Una correzione schioccata come una frustata”. Il colpo va a segno: “Dalila mi segue in cucina e mi dice: mi rendo conto che dentro questa correzione c’è la tua stima nei miei confronti”. Da quel giorno è stato spazzato via ogni formalismo. “L’accoglienza non è un bed & breakfast gratuito, è una famiglia, è una casa – sottolinea Paola –. Mettere in atto la mia libertà nella correzione ha suscitato in lei una consapevolezza diversa: la casa è diventata un luogo dove era possibile vivere dei rapporti veri. Tanto da arrivare a proporle di fare il Ramadan insieme a lei. Può sembrare una proposta folle, ma in realtà diventa naturale dentro questa accoglienza, perché la mia identità mi permette di aprire le porte fino a quel livello di compagnia”.

Com’è oggi il rapporto con Dalila? “Ci sentiamo con regolarità. E quando ci si incontra è come se fosse ancora qui con noi. Sulle domande, sulla condivisione delle cose che contano, il lavoro, gli amici, la felicità, il legame è molto vivo, potente”.

Che cosa hai imparato? “Innanzitutto che avere una casa con le porte aperte non è offrire un servizio, ma fare entrare una novità che cambia in positivo gli stessi rapporti familiari e costringe a fare i conti con la sua originalità. Secondo: verso Dalila ho maturato uno sguardo talmente materno da avere a cuore la sua felicità quanto quella di mia figlia. Terzo, ma nient’affatto secondario: il fatto di avere in casa Dalila, con tutte le sue mille domande cui dare risposta, ha significato far entrare nella nostra vita anche Famiglie per l’Accoglienza: sono nate amicizie intense, una trama di rapporti che dà un grande respiro”.   

Uno in più

Anno 2016. Gianluca e Michela, coppia milanese di medici, una bella casa e un bel lavoro, si sentono “stabilizzati”. Ma non basta. “Che cosa ne facciamo di questo capitale? Non rischiamo un po’ di seppellire sotto terra i talenti che il Signore ci ha donato?”. Michela prende sul serio l’appello di Papa Francesco alle parrocchie affinché aprano le porte alle famiglie di profughi. Invitati, del tutto casualmente da un amico, partecipano a un incontro di Famiglie per l’Accoglienza. A tema: la situazione del Donbass, regione dell’Ucraina orientale. Testimonianze e la possibilità di dare una mano, attraverso il progetto “Figli della speranza”, a ragazzini dagli 8 ai 13 anni figli di famiglie profughe della guerra di Crimea, offrendo loro d’estate un mese di accoglienza in casa. “Ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: perché no? Così abbiamo dato subito la nostra disponibilità”.

Gianluca e Michela pensano a un’esperienza come quella per i ragazzi di Chernobyl: un posto dove farli dormire e dargli mangiare, quanto al resto, ci pensano gli oratori e magari qualche associazione. Scoprono invece che “che avremmo dovuto accoglierli come fossero figli nostri”, ma essendo due medici, a quel tempo senza figli (poi hanno accolto in affido una bambina, che oggi ha 14 anni) “restare a casa un mese era un po’ impossibile”. Per fortuna Michela riesce a ottenere un mese di aspettativa.

Ma capita una “cosa buffa”. Il progetto infatti prevede che ogni famiglia accolga un ragazzo. Quando però il 24 luglio 2016 sbarcano i figli di profughi ucraini, si scopre che ce n’è uno in più. “Insomma, prima di fare ancora gli accoppiamenti, ne “avanzava” uno in eccesso e per noi che di cognome facciamo Avanzi è venuto spontaneo dire: se si tratta di due fratelli, di due sorelle o di un fratello e sorella, prendiamo noi la coppia. Così sono arrivati in casa nostra Sergei, 11 anni, e Ludmilla, 10 anni”. Ebbene tutti ancora oggi ci invidiano come i due più fortunati perché erano considerati i più bravi e i più belli.

L’inizio non è affatto facile. Vanno tutti assieme in vacanza con altre famiglie a Passo San Pellegrino. Sergei e Ludmilla sono spaesati, spiaccicano a fatica qualche parola di italiano, sono molto educati, un po’ orgogliosi, tanto timidi. Vogliono parlare spesso con la mamma in Ucraina, e questo diventa un problema quasi insormontabile, perché non è facile trovare un wi-fi. A sciogliere l’estraneità, ci pensa un film, grazie all’aiuto – disperatamente cercato e casualmente incontrato – della moglie di un amico, che sa parlare il russo. Da quella familiarità linguistica in Sergei e Ludmilla scatta il desiderio di conoscere quel che capitava intorno a loro.

L’ospitalità permette a Gianluca e Michela di conoscere la comunità ortodossa di Milano. “Il nostro gesto ha generato una stima sconfinata. Il loro archimandrita ci ripeteva sempre che la possibilità offerta ai quei ragazzi di stare con famiglie cristiane avrebbe cambiato la storia dell’Ucraina”.

Che seme ha fatto sbocciare quella storia di accoglienza? “Il buon Dio ti dà quel che puoi portare. Ed è sempre un di più che capita. Non saremmo mai andati in Ucraina, non avremmo incontrato la comunità ortodossa, non avremmo visto cambiare altre famiglie più giovani, non avremmo conosciuto Famiglie per l’Accoglienza. L’accoglienza non è eroismo, nasce da un essere educati, accompagnati. Ti trovi ospitato, ti accorgi che è bello e che questo diventa tuo. Sei in mezzo a persone, pur con i loro limiti, che hanno costantemente lo sguardo aperto ad altri”.

Gianluca e Michela hanno conosciuto e incontrato in Ucraina i genitori di Sergei e Ludmilla e ne è germogliato un bel rapporto: ogni occasione – la festa della mamma, un compleanno, una bella vittoria del Milan – è buona per mandarsi un messaggino.

Ludmilla è tornata da loro anche nel 2017, Sergei per quattro anni di fila. E l’ultima volta – ricorda Gianluca – “durante una passeggiata in montagna è arrivato a dirmi: penso che Dio ha fatto capitare tutto questo – e si riferiva alla guerra, alla sofferenza e alla fuga dalla propria casa – perché noi potessimo incontrare voi”. 

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