Nella prima conferenza stampa da presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump è sembrato ancora in campagna elettorale, tanto i toni sono stati sopra le righe. Soprattutto per quanto riguarda gli scacchieri internazionali, dove il futuro inquilino della Casa Bianca ha promesso sfracelli anche in casa di alleati. Ha minacciato di invadere un Paese come Panama per riprendersi il controllo del traffico marittimo nel Canale omonimo. Ha sfidato un Paese Nato come la Danimarca, cui appartiene la Groenlandia, isola dei ghiacci nel Mare Artico su cui Trump metterebbe volentieri le mani. E ha pure garantito che il Golfo del Messico in futuro si chiamerà Golfo d’America, lasciando poche incertezze sulla volontà di riprendere a dettar legge sugli Stati centroamericani.
Queste dichiarazioni apparentemente a ruota libera, espressione del “nuovo corso” americano, hanno coperto altri pericolosi avvertimenti che non riguardano territori vicini agli Usa. Tra gli obiettivi di Trump infatti c’è anche Hamas, o quantomeno ciò che ne resta dopo oltre un anno di bombardamenti israeliani – e di massacri di civili palestinesi – nella Striscia di Gaza. “Hamas rilasci tutti gli ostaggi o sarà l’inferno”, ha ammonito il prossimo presidente Usa. Ma che inferno può mai essere dopo mesi di attacchi ininterrotti di Tel Aviv e 45mila morti? L’inferno c’è già stato, in Medio Oriente, è ancora in corso, ed è quello che i principali media, nonostante tutto, non ci fanno vedere.
Le parole incendiarie di Trump, che potrebbero rialzare la tensione in molte regioni già martoriate, sollevano il velo su quella che sarà la prossima Amministrazione Usa. Se in campagna elettorale il tycoon giocò molte delle sue carte nel fare apparire Biden come un impenitente guerrafondaio, ora è lui ad apparire come il bellicista di turno. Le intenzioni di Trump sembrano cambiate. Ma a ben guardare, una spiegazione c’è. Ed è la ragione per cui il secondo mandato di “The Donald” sarà profondamente diverso da quello iniziato otto anni fa. Allora la sua fu un’elezione a furor di popolo, un corpo elettorale insofferente disposto a insediare un’incognita come Trump pur di liberarsi dell’establishment incarnato da Hillary Clinton. Fu il successo a sorpresa di un outsider, sprovvisto di esperienza politica diretta, politicamente scorretto e privo anche dei necessari sostegni nelle stanze dove si gestisce il potere conquistato. E fu questa mancanza a costargli cara, precludendogli la rielezione immediata.
Ora invece Trump ha imparato la lezione e prima del voto si è garantito una serie di appoggi chiave, tra cui quelli della potente e ricca comunità ebraica negli Usa. È per compiacere questa lobby, sua sponsor, che il presidente eletto minaccia “l’inferno” nei Territori palestinesi. Esternazioni che farebbero luce sulle sue reali intenzioni in politica estera, che – almeno nei proclami – non sarà così pacifista come promesso prima del voto di novembre. Il “Trump 2” si annuncia profondamente diverso dal “Trump 1”.
A meno che il “cinema” di ieri non sia soltanto la strategia mediatica di una guerra verbale voluta da Trump per forzare Hamas ad un accordo.
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