Nella vita, i segnali sono tutto. E ancor più importante è la capacità di coglierli in tempo. Quindi, meglio mettere da parte gli entusiasmi e gli applausi a scena aperta tributati dal popolo del Meeting a Mario Draghi.
Per almeno un paio di motivi. Il primo sta in questo grafico, il quale mostra plasticamente come in perfetta contemporanea con il discorso del presidente del Consiglio uscente alla kermesse di Comunione e Liberazione, il prezzo del gas naturale europeo tornava a impennarsi. In tandem con quello del contratto energetico a un anno della Germania. E questa volta, la Russia non poteva essere scomodata. Da Mosca nemmeno un fiato di rinnovata minaccia.
Vuoi dire che il mercato, a differenza delle opinioni pubbliche, sia ben conscio e preoccupato per la scelta della statunitense Freeport LNG di rinviare a metà novembre la ripartenza dell’export di gas liquefatto, come vi raccontavo nell’articolo di ieri? Guarda caso, proprio ieri l’impennata è proseguita: gas naturale a 315 euro per MWh e contratto a un anno della Germania fuori controllo, addirittura a 725 euro per MWh, un aumento del 13% nella sola mattinata. Peccato, quindi, che Mario Draghi non abbia avuto il coraggio di raccontarla tutta la storia. Ma solo la sua versione. In base alla quale, la crisi energetica è totalmente ascrivibile all’invasione russa dell’Ucraina.
Balle. La crisi energetica è ascrivibile all’aver tramutato una sedicenne svedese nel ministro dell’Ambiente e dell’Energia dell’Ue. Punto. La guerra ha solamente esacerbato le dinamiche, stante l’ovvia reazione russa alle sanzioni economiche europee, utilizzando la leva che maggiormente le garantisce efficacia di azione. Se poi vogliamo essere onesti fino in fondo, occorrerebbe anche ammettere che gli Stati Uniti hanno mosso guerra alla dipendenza russa dell’Europa da ben prima dell’operazione speciale di Mosca. Paradossalmente, da subito dopo l’invasione della Crimea. Perché l’ingerenza verso Germania e Danimarca perché bloccassero il progetto di Nord Stream 2 è questione antica. Risale all’era Obama. E fu Donald Trump il primo a sottolineare pubblicamente la criticità rappresentata dall’eccessivo livello di ricatto che Mosca poteva imporre ai governi europei attraverso il gas.
Insomma, l’ossessione americana per il rapporto puramente commerciale fra Federazione Russa e Ue in fatto di approvvigionamento è parte di un’agenda politica parallela che fa da sempre il paio con l’allargamento a Est della Nato. Chi lo nega, mente. E non serve quindi scomodare la trappola di Tucidide per capire quali equilibri siano andati in pezzi sul finire dello scorso febbraio. Certo, un discorso simile al Meeting avrebbe generato sbadigli e abbandoni collettivi della sala, ma, quantomeno, avrebbe fatto un po’ di chiarezza a 360 gradi.
Ed eccoci al secondo motivo, racchiuso totalmente in questo regalino che il Financial Times ha recapitato al nostro Governo ieri mattina, mentre sui quotidiani di casa nostra andava in scena la canonizzazione in vita dell’ex numero uno della Bce.
Un bell’articolo in base al quale scopriamo che nel solo mese di agosto, gli hedge funds hanno preso in prestito Btp per 39 miliardi di dollari per scommettere al ribasso contro il nostro debito pubblico. Si tratta della posizione short contro l’Italia più grande dal gennaio 2008, stando a dati di S&P Market Global Intelligence. La ragione? Duplice. L’instabilità politica innescata dal voto anticipato (e dai programmi) e, appunto, la dipendenza dell’Italia dal gas russo, vista come una criticità enorme alla luce del reiterato e totale appoggio di Mario Draghi alla causa di Kiev.
Ma dentro quella scelta dei fondi speculativi c’è altro: c’è la certificazione del fallimento del sedicente Governo dei Migliori. Perché è di pochi giorni fa la notizia del record assoluto raggiunto proprio da quel debito pubblico contro cui gli hedge funds stanno scommettendo e, soprattutto, un controvalore simile di short selling motivato dalla questione energetica equivale a sancire ciò che dico da tempo, confortato in tal senso dalle analisi ben più accurate delle mie di Davide Tabarelli su queste colonne: al netto della retorica e della narrativa, l’Italia non ha alcuna alternativa reale a Gazprom. Perché il mercato, a differenza dei giornali strabordanti ammirazione per l’uomo della Provvidenza, sa mettere in fila le cifre e analizzare i contesti.
L’Angola è il regno della corruzione, certificata dal recente passaggio elettorale, l’Algeria è di fatto pappa e ciccia con Gazprom quando si parla di energia e gli Stati Uniti si tengono stretti il loro gas naturale, come mostrato solo 48 ore fa dalla Freeport LNG. Tradotto, resta solo Gazprom. Perché al netto di tutto, Mario Draghi ha dovuto ammettere che i due rigassificatori necessari per rendere il gas in arrivo utilizzabile e trasformabile in energia per famiglie e imprese saranno pronti a ottobre 2024: signori, cosa facciamo per due anni, bruciamo vecchi numeri della Gazzetta dello Sport e ci alitiamo addosso, come il bue e l’asinello di biblica memoria? In tal senso, mi sarei aspettato dalla platea del Meeting un maggiore senso critico. Ma, d’altro canto, vista l’alternativa politica e umana cui andiamo incontro con il voto del 25 settembre, certe idolatrie un po’ adolescenziali nelle manifestazioni appaiono quasi giustificate.
L’Italia ce la farà anche questa volta, chiunque vinca le elezioni, ha garantito paterno Mario Draghi a Rimini. Il problema sta nel motivo: perché comunque sia, entro poche settimane dal voto, ricorrerà giocoforza al Tpi, lo scudo anti-spread della Bce che altro non è se non un Mes travestito. Il detonatore? La natura auto-alimentante di quell’enorme scommessa degli hedge funds. Nessuno ve lo dirà, ma state certi che Mario Draghi resterà a palazzo Chigi a gestire la stagione greca della politica italiana. Come da copione. Carlo Calenda ha già vinto. Qualunque risulto ottenga dalle urne. L’Italia, in compenso, ce la farà. Ma solo a sopravvivere.
Spiace dirlo, ma, involontariamente e in buona fede, a Rimini è stata tributata una standing ovation al commissariamento del Paese.
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