Fare figli in Italia è sempre più un problema e le conseguenze su lungo periodo potrebbero davvero essere devastanti: dopo che da anni il Presidente dell’Istat, il Forum delle Famiglie e diversi altri enti nazionali richiamano la politica ad interventi mirati e urgenti per incentivare “la natalità”, il recente assegno unico famigliare è stato visto come una prima vera risposta della politica in merito. Ma non basta, come fa capire bene la professoressa Chiara Saraceno all’Huffington Post.



Nell’ultimo report dell’Istat sulla popolazione in Italia emerge che nel 2020 i nati sono 15mila in meno dell’anno precedente e il 2021 non inverte la tendenza: «Questi dati non mi sorprendono», spiega la scrittrice e sociologa, «Sono il risultato di una combinazione di circostanze che durano nel tempo e che hanno reso l’Italia un paese in cui l’entrata alla piena vita adulta arriva tardi, perché è difficoltoso l’accesso alle condizioni che la rendono possibile – un’occupazione con un reddito adeguato, un’abitazione che ci si possa permettere, innanzitutto. A ciò si aggiungono le difficoltà specifiche che incontrano le donne che vogliono diventare madri». Saraceno invita a distinguere i problemi, la natalità e la fecondità: per la prima, «è tenuta bassa anche dal fatto che siamo una popolazione vecchia e la quota di chi non può far figli perché ha superato l’età canonica è crescente». Ma un vero problema è anche la scarsa “prolificità” di chi è in età fecondabile: «il numero di figli che nascono per ogni donna in età feconda, che come restituisce l’Istat, è nel 2020 un numero corrispondente a 1,17 per le donne di cittadinanza italiana, il dato più basso di sempre. ”È qui che si può intervenire ed è da qui che si parte per capire perché in Italia si fanno pochi figli, anche in relazione agli altri paesi».



LA CRISI DELLA NATALITÀ E IL PEGGIORAMENTO COL COVID-19

Ad una crisi perdurante e di “orizzonte”, la pandemia da Covid-19 non ha certo migliorato la condizione: anzi, «I demografi avevano già anticipato che sarebbe stato improbabile che lo star chiusi in casa producesse un aumento delle nascite, perché era una delle conseguenze dell’interruzione e sconvolgimento dei progetti individuali e collettivi prodotti dalla pandemia, parte del clima di grande incertezza da questa provocato, innanzitutto rispetto alla salute, poi rispetto al lavoro e all’economia». Per Chiara Saraceno, sempre nell’analisi fatta sull’Huffington Post, la pandemia ha ridotto e molto gli orizzonti temporali delle donne: «Chi progettava di fare un figlio in più si è trovato a porsi domande quali: Manterrò il mio lavoro? Avrò una riduzione di reddito? Andrò in cassa integrazione? L’orizzonte si è accorciato. Ma per fare figli occorre avere un po’ di orizzonte davanti». Attenzione però, per Saraceno questa non è una colpa imputabile alla società, alle famiglie, alla donna stessa: «Mettere al mondo un figlio, o un figlio in più, in un’epoca di grande incertezza significa esporre sé stessi e i figli a un rischio. Allora per persuadere chi vuole fare un figlio a correre questo rischio non ci si può semplicemente appellare alla generosità d’animo, al fato, a discorsi più o meno moralistici». Non basta l’assegno unico quando si hanno occupazione spesso precaria, salari non all’altezza e condizioni sfavorevoli: «Bisogna essere ragionevolmente sicuri di poter mantenere un figlio lungo tutto il periodo della crescita e, se donne, di poter continuare a lavorare anche se si diventa madri», chiosa la professoressa.

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