Anakinra, baricitinib e sarilumab: si chiamano così i tre farmaci immunomodulanti, attualmente utilizzati per altre patologie, che nella riunione straordinaria del 23 settembre 2021 la Commissione tecnico-scientifica dell’Agenzia italiana del farmaco ha reso disponibili per il trattamento anti-Covid in pazienti ospedalizzati con polmonite e necessità di supporto respiratorio. La decisione dell’Aifa amplia lo spettro delle opzioni terapeutiche ed evita che negli ospedali si possano creare grossi problemi in caso di carenze del tocilizumab, con impatti negativi sulle possibilità di cura. Nella riunione del 28 settembre 2021, il Cda dell’Agenzia ha poi approvato l’inserimento di anakinra (che secondo alcuni studi riduce del 50% la gravità della malattia), baricitinib e sarilumab nell’elenco dei farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale. L’approvazione dei tre farmaci, secondo Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, è legata alle recenti evidenze scientifiche e non dipende da ritardi di natura “politica”. Bisogna però ricordare che a tutt’oggi “non esistono farmaci antivirali specifici contro il Sars-CoV-2”, anche se “entro fine 2021 dalla ricerca potrebbe arrivare qualcosa di buono”.



Perché solo adesso sono stati approvati questi tre immunomodulanti?

Solo recentemente si è visto che l’anakinra, che è un anti-infiammatorio, poteva essere utile nella fase acuta della malattia. Il baricitinib è invece un inibitore di alcuni enzimi coinvolti nell’infiammazione e nella risposta immunitaria, mentre il sarilumab, come il tocilizumab che già viene utilizzato fin dai primi giorni della pandemia, è un anticorpo monoclonale che ha effetti anti-infiammatori analoghi all’anakinra. Logico, dunque, metterli ora a disposizione degli ospedali, ma vanno usati con buon senso.



Perché?

Perché possono avere effetti tossici: non vanno somministrati a tutti gli ammalati di Covid, ma solo a quelli in cui si è sviluppata una sindrome infiammatoria seria. Ricordiamoci sempre che più dell’80% degli infetti manifesta sintomi tenui.

Secondo lei, quindi, non c’è alcun ritardo “politico”, dovuto al fatto che si insiste con grande enfasi solo ed esclusivamente sul mantra dei vaccini, mentre si sottace l’aspetto della cura con i farmaci?

L’Aifa rende i tre farmaci disponibili dando loro una sorta di autorizzazione anti-Covid, un’indicazione cioè che non è presente nei loro fogli illustrativi. È una procedura fatta secondo le norme vigenti del cosiddetto off-label, utilizzo al di fuori di ciò che viene riportato sull’etichetta del farmaco, suggerito dalla presenza di dati indicativi sulla loro utilità.



È però altrettanto vero che, dopo il documento redatto dal professor Remuzzi a novembre 2020, le cure domiciliari anti-Covid sono state snobbate un po’ troppo sbrigativamente. Perché?

Quelle cure meritavano certamente un maggiore approfondimento. È molto importante tenere a casa le persone fin quando è possibile, somministrando nella prima fase farmaci anti-infiammatori non steroidei, come il nimesulide, e facendo quello che è utile fare – per esempio, tenendo sotto controllo la temperatura corporea ogni giorno – per evitare che l’infezione diventi più severa.

A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia in Italia abbiamo dei farmaci per curare l’infezione?

Farmaci anti-virali specifici contro il Sars-CoV-2, come gli antibiotici che agiscono sulle infezioni, non ce ne sono ancora. L’impiego del cortisone durante la malattia è un’altra evidenza, ma è un farmaco già noto e non specifico. Abbiamo anche farmaci che agiscono sul alcune sintomatologie. Possiamo, poi, contare su alcuni anticorpi monoclonali che, se assunti nella primissima fase della malattia, aiutano a diminuire la carica virale e abbassare la probabilità di contrarre la malattia.

Anche l’Ema è in procinto di dare il via libera ad alcuni anticorpi monoclonali…

Sì, ma bisogna aspettare di vedere quale sarà il responso.

C’è chi dice che la vera “rivoluzione” sarà proprio quella degli antivirali, così come accaduto per l’Hiv o le epatiti B e C.

È vero, ma ciò accadrà solo quando saranno disponibili.

Ci sono gruppi di ricerca che stanno studiando farmaci in grado di bloccare il virus?

Ce ne sono centinaia in tutto il mondo, si sta lavorando e si spera che entro fine 2021-inizio 2022 qualcosa di buono possa uscire.

Il fatto che molti dei farmaci utilizzati non siano specifici per il Covid può spiegare la ritrosia a parlarne, a incoraggiarne l’uso?

Il futuro ideale sarebbe quello di poter contrastare l’attecchimento e lo sviluppo del virus attraverso i vaccini e in quel 10-15% di soggetti che non si possono vaccinare o sui quali l’immunizzazione non scatta o è troppo bassa, avere a disposizione dei farmaci che curano la malattia. Ma avere insieme prevenzione e terapia resta, per ora, un futuro ideale.

In Italia sono state avviate 71 sperimentazioni cliniche sui farmaci anti-Covid. Che panorama emerge?

Non c’è niente di veramente nuovo, siamo ancora in fase di studio, anche se molti farmaci, come l’idrossiclorochina o l’azitromicina, non hanno prodotto risultati positivi.

E la plasmaterapia?

La maggior parte degli studi non hanno evidenziato alcun beneficio, non possiamo contarci in misura significativa.

Quindi, al momento, l’arma anti-Covid più efficace resta il vaccino?

Attenzione: il vaccino non è una cura, è una prevenzione.

(Marco Biscella)

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