Si rincorrono con frequenza sempre più serrata gli studi e le osservazioni su nuovi farmaci contro il Covid-19 o su vecchi farmaci che potrebbero mostrarsi efficaci nel contrastare il virus. Da ultimi l’Indolo-3 Carbinolo, un composto naturale che sarebbe in grado di bloccare il virus secondo uno studio pubblicato su Cell Death & Disease, e l’ivermectina, un antiparassitario che stando ad alcune ricerche sarebbe in grado di uccidere il virus in 48 ore, ma sul quale l’Associazione Italiana del Farmaco ha emesso una nota, chiarendo che l’Ema non raccomanda l’uso del medicinale per la cura o prevenzione del Covid e che non sono nemmeno pervenute all’Agenzia Europea del Farmaco richieste in tal senso. Ne abbiamo parlato in questa intervista con il Professor Roberto Caudache insegna Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.



Professore, cosa pensa della discussione intorno all’ivermectina come potenziale farmaco per la cura del Covid?

C’è uno studio randomizzato controllato che mette in realtà in discussione l’efficacia dell’ivermectina contro il Covid. Anche l’Ema, alla luce degli studi limitati a disposizione, scoraggia l’uso dell’ivermectina per la cura del Covid. L’ivermectina è stata approvata per alcune malattie parassitarie (in compresse), e, in preparazioni cutanee, per il trattamento di condizioni come la rosacea, inoltre è autorizzato nell’uso veterinario, ma non è autorizzato per l’uso contro il Covid-19.



Come mai si rincorrono le notizie su nuovi farmaci o vecchi farmaci che potrebbero essere efficaci contro il Covid?

È normale, anche l’idrossiclorochina ad esempio ha mostrato una certa efficacia negli studi osservazionali, ma non in quelli controllati. Talora gli studi osservazionali, per una certa debolezza insita nella metodologia, potrebbero indicare qualcosa che invece non si riscontra negli studi controllati randomizzati, quelli che poi in qualche moda fanno storia, dicono l’ultima parola. Ogni tanto si parla anche del plasma con studi favorevoli, ma servono risposte univoche. L’utilizzo della stessa ivermectina non appare supportato in base allo studio uscito su Jama che ho menzionato.



Cosa dice lo studio?

Dice che non ci sono notizie certe sull’utilizzo clinico dell’ivermectina. Per determinare se l’ivermectina sia efficace su forme lievi del Covid-19 è stato fatto uno studio randomizzato, condotto in Colombia. I partecipanti erano 476 adulti, con Covid-19 confermato in laboratorio, una malattia lieve e sintomi per 7 giorni o meno. Il tempo medio di risoluzione era di 10 giorni nel gruppo trattato con ivermectina, comparato a 12 giorni del gruppo cui era stato somministrato un placebo, una differenza statisticamente non significativa.

Quali sono state le conclusioni?

Che tra gli adulti con Covid leggero un ciclo di 5 giorni di ivermectina non migliora significativamente il tempo di risoluzione dei sintomi. Il dato finale non supporta quindi l’uso di questo farmaco per il trattamento di Covid-19. Viene lasciata però una porta aperta, si dice che trial maggiori sono necessari per capire l’effetto dell’ivermectina in base ad altri dati.

Questo cosa ci fa pensare?

La morale è che ci sono stati degli studi, alcuni dei quali – studi aperti, non controllati – hanno mostrato, su piccoli numeri, un possibile beneficio di farmaci come la clorochina, l’idrossiclorochina e l’ivermectina in termini di riduzione dei sintomi. Quando però sono stati fatti degli studi randomizzati e controllati, questi benefici sono spariti, ma nessuno ha detto la parola “fine”, anche se, ovviamente, è giusta la cautela di Ema.

Si parla anche dell’Indolo-3-Carbinolo, cosa ne pensa?

È un composto naturale che parrebbe poter intrappolare il virus: anche questa però è una scoperta testata soltanto in vitro. In vitro anche altri farmaci, come appunto la clorochina, hanno mostrato un’efficacia. Al di là dell’interesse dello studio, del valore di chi lo ha coordinato, i Proff. Novelli e Pandolfi, e del prestigio della rivista Cell Death & Disease, è uno studio fatto in vitro, per cui è troppo presto per trarre qualunque tipo di conclusione.

Cosa sostiene lo studio?

È uno studio interessante nel merito, basato sull’osservazione della capacità di questi enzimi di bloccare l’uscita del virus dalle cellule e la sua replicazione. I presupposti sono robusti, ma da clinico voglio fare studi controllati: non per sminuire il valore dell’osservazione, ma perché prima della pratica clinica occorre fare la sperimentazione.

È in questo passaggio che poi si perde traccia di farmaci annunciati come promettenti?

Troppe volte in passato si è visto – e l’esempio della clorochina è emblematico –  che un’azione in vitro non necessariamente si traduce in un’efficacia in vivo. Bisogna il più possibile cercare di dare risposte univoche: la scienza sta dando una grande mano dal punto di vista di supporto alla società civile e c’è il diritto all’informazione delle persone, ma la scienza è qualcosa di molto complesso. In questo momento le persone vorrebbero avere certezze immediate e in tempi brevissimi, ma la scienza ha i suoi tempi e le sue metodologie, che non sono immediate, ma si corroborano attraverso l’esperienza e il rispetto delle fasi, che valgono per i vaccini così come valgono per i farmaci.

Qual è la morale?

La morale è che c’è una continua ricerca scientifica, vivace e pubblica, che porterà sicuramente dei benefici. Il fatto stesso che in un momento in cui si parla solo di vaccini la ricerca sulle terapie vada avanti è un elemento di grande interesse e conforto rispetto agli obiettivi della scienza e della medicina in generale.

In alcune regioni si stanno iniziando a utilizzare i monoclonali, al momento non ci sono cure altrettanto promettenti?

Nella malattia da Covid-19 abbiamo tre fasi. La prima è la fase in cui il virus si diffonde, quella in cui intervengono i monoclonali, secondo paletti individuati da Aifa: vanno dati precocemente e in pazienti non gravi, non ospedalizzati, pazienti in cui per comorbidità o altri fattori la malattia potrebbe andare incontro ad aggravamento. L’ultima è la fase cosiddetta infiammatoria, per la quale ci sono farmaci convenzionali come il cortisone, un farmaco vecchio, degli anni Cinquanta, che riduce la mortalità e il passaggio in terapia intensiva. O l’eparina, che riduce l’embolia polmonare. In questa fase il virus ha meno responsabilità, nel senso che la sua responsabilità è quella di aver innescato il fenomeno.

E fra le due?

In mezzo c’è la fase polmonare, per la quale non ci sono farmaci specifici: tutti i farmaci di cui abbiamo parlato in questa intervista, che vengono giustamente annunciati come potenziali trattamenti antivirali, non sono ancora entrati nella pratica medica e chissà se ci entreranno mai.

(Emanuela Giacca)

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