“Nei periodi normali in terapia intensiva abbiamo 6 posti letto, estendibili a 8 al massimo. Oggi, con l’emergenza coronavirus, a fronte di 23 posti letto disponibili, abbiamo 22 pazienti intubati estremamente gravi, tutti dislocati in un reparto di rianimazione allestito ex novo. A prendersene cura, ogni giorno h24, si alternano una ventina di rianimatori, circa 5 ogni turno da 12 ore, più gli ‘smontanti’, e una cinquantina di infermieri, 13-14 per turno, della durata di sei ore”. Bastano pochi numeri a Roberto Rech, direttore responsabile emergenza urgenza intraospedaliera e terapia del dolore, per descrivere quella che è la trincea più avanzata e più esposta all’offensiva del coronavirus all’ospedale “Luigi Sacco” di Milano. Dal 21 febbraio Rech con i suoi rianimatori e infermieri passa gran parte del suo tempo in un ambiente isolato, dove l’aria viene aspirata e filtrata verso l’esterno, anziché essere mandata da ventilatori e aeratori sui pazienti, “per cercare di evitare dispersioni di droplet, cioè le goccioline di saliva che veicolano il virus, o altri elementi inquinanti”. Ogni giorno a contatto con malati che soffrono di “un estremo affaticamento respiratorio e che quando arrivano da noi sono già sfiancati e terrorizzati”.



Di che pazienti si tratta?

I loro trascorsi, più o meno, sono simili: all’inizio hanno febbre e tosse, arrivano al pronto soccorso dove vengono trattati come sindromi influenzali di media gravità e rimandati a casa con associata terapia antibiotica. Dopo due-tre giorni peggiorano e tornano in pronto soccorso, vengono predisposti per il ricovero e da quel momento inizia l’escalation, caratterizzata da una sempre maggiore richiesta di ossigeno.



Come ve ne prendete cura?

Per garantire loro adeguata respirazione, utilizziamo maschere per una ossigenazione crescente, fino al 100% di supporto. A quel punto il coronavirus va trattato con la Pip, che offre elevata espansione polmonare. Per questo ricorriamo a C-Pap, maschere o caschi che danno pressione positiva in fase inspiratoria ed espiratoria, mantenendo il polmone espanso anziché farlo ripiegare su se stesso.

Che cosa li preoccupa di più: la malattia sconosciuta, la paura di non guarire, il peso delle cure, la solitudine?

Innanzitutto, la malattia sconosciuta, soprattutto in questa prima fase di epidemia da coronavirus, che fino a venti giorni fa sembrava una cosa lontana. Sono stato anche a Codogno, quando è stato ricoverato il paziente 1, per portare al Sacco il suo amico contagiato e sono stato anche a Cremona: nei volti di tutti ho visto quel che già Manzoni descriveva nelle pagine dedicate alla peste di Milano. Si sentivano condannati a fare i conti con un problema irrisolvibile. Non è una guerra, perché in battaglia sai che volto ha il tuo nemico e puoi cercare di difenderti: qui non sai neanche da dove possa sbucare, è un fronte incontrollabile, è un nemico che non vedi. Un’infezione, un’epidemia provoca sempre maggiore apprensione. Anche perché un paziente sa di essere in un reparto, la terapia intensiva, dove il personale è tutto bardato, si ritrova attaccato a un respiratore e ha la consapevolezza che fuori di lì non avrà altre vie di uscita. E nemmeno sa quando finirà questo decorso.



Quindi siete chiamati anche a fare compagnia e a offrire supporto psicologico a questi malati?

La preoccupante mancanza di ossigeno e la necessità di intervenire prontamente non ci lasciano molto tempo. Ma è importante sostenere i pazienti, spiegano loro come interverremo.

Il decorso è lungo, ci vogliono almeno tre settimane per venirne fuori…

L’emergenza è iniziata una ventina di giorni fa e quindi siamo ancora in una fase in cui i primi malati sono ancora ricoverati e virano con una certa lentezza verso la possibilità di estubazione. Finora solo un paziente, un 45enne che ha reagito molto bene, è tornato a casa. L’estubazione per lui è stata vissuta come la conquista di un traguardo importante.

Com’è il rapporto con i parenti di questi malati?

La fatica maggiore è non poter vedere i loro cari: noi chiusi qua dentro, loro blindati in casa. Ogni giorno, una volta al giorno, telefoniamo a ciascuno, aggiornandoli sulla situazione per non farli sentire tagliati fuori. E se il quadro clinico peggiora, i parenti vivono il dramma di non poter assistere agli ultimi istanti di una persona cara con cui fino a poche settimane prima condividevano tutto.

Qual è la prima urgenza da affrontare?

La difficoltà respiratoria, che è molto insidiosa, anche per le caratteristiche particolari della malattia.

Perché?

Di solito in rianimazione dobbiamo fronteggiare pazienti con polmoni molto rigidi, fibrosi e duri, che respirano con grande fatica. All’insorgere della malattia, invece, i pazienti presentano polmoni molto “morbidi”, si rendono conto tardi della gravità, perché la meccanica respiratoria non viene subito intaccata. Ma dopo sei-sette giorni la mancanza di ossigeno diventa improvvisa e in appena 24-48 ore peggiora nettamente. In più, molti di questi pazienti, circa il 20%, manifestano insufficienza renale o sono dializzati, perciò necessitano di macchinari sofisticati.

Con quali “armi” affrontate questa guerra?

La prima arma, fondamentale, è la sicurezza della scena: disporre di zone idonee anti-contagio, dotate di pressione negativa dell’aria, e di protezioni personali adeguate sono elementi chiave. Sul fronte delle apparecchiature, abbiamo bisogno di C-Pap, di ventilatori polmonari e di macchine a filtrazione dialitica, oltre ovviamente al sostegno farmacologico.

Si parla anche di cocktail di medicinali…

Vengono provati farmaci, che non sono vere e proprie cure, ma tentativi di cura, perché non esistono farmaci anti-coronavirus, ma generici antivirali. Inoltre al Sacco le terapie sono mutuate anche dalla lunga esperienza nella lotta all’Hiv e utilizziamo anche alcuni anti-reumatici, che non fermano il virus, ma almeno bloccano le successive e peggiorative cascate infiammatorie.

Non vi prende mai lo sconforto davanti a un nemico così subdolo e invadente?

In rianimazione ci troviamo spesso a combattere battaglie quasi infinite contro infezioni, problematiche di sepsi o di fibrosi polmonare. Siamo abituati al lungo termine. Nel caso del coronavirus la difficoltà è contrastare il precipitare degli eventi e quando, anche dopo un decorso lungo e nonostante tutte le attenzioni nel definire e nel regolare le ventilazioni, vediamo piccoli peggioramenti o situazioni che restano stabili non possiamo non sentirci scoraggiati.

La cronaca segnala molti racconti di dedizione, di sacrificio, di abnegazione. Fino a quando potete reggere?

Fino a quando è necessario, è ovvio. Ognuno trova in sé le motivazioni e in più abbiamo la fortuna di lavorare in un team molto affiatato, che aiuta a superare insieme le difficoltà.

Qual è oggi la difficoltà maggiore?

L’approvvigionamento di monitor, respiratori e macchinari per poter mettere a disposizione qualche posto letto in più.

E di cosa ci sarebbe oggi maggiormente bisogno per aiutare il vostro lavoro in terapia intensiva?

Il supporto di una terapia farmacologica, grazie alla quale ci troveremmo meno pressati dalle richieste esterne e dalle storie drammatiche che oggi abbiamo davanti agli occhi e che rendono più faticoso il nostro lavoro. È dura dover dire: non ho abbastanza energia e abbastanza risorse per aiutare qualcuno in più. Per ora qui al Sacco il sentimento di impotenza non è ancora così frustrante.

(Marco Biscella)

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