Una violenta diminuzione del Pil, -4,7% rispetto all’ultimo trimestre del 2019 e del 4,8% nei confronti dei primi tre mesi del 2019. Lo dicono i dati rilasciati ieri dall’Istat. Si tratta “di una contrazione di entità eccezionale indotta dagli effetti economici dell’emergenza sanitaria e dalle misure di contenimento”. Ne abbiamo parlato con Gian Carlo Blangiardo, demografo e presidente dell’Istituto nazionale di statistica, cercando di immaginare il paese che saremo nell’uscita dall’emergenza e dopo di essa. Contagi, sanità, lavoro, disoccupazione, paura: fattori che si intrecciano in tanti modi possibili, aprendoci ad un futuro difficile da immaginare. “Molte situazioni” – dice il professore – “saranno vissute da noi in un modo nuovo, cambierà forse il nostro sistema dei valori”.



Presidente, cominciamo dal Pil. L’Istat ha detto che la variazione di Pil acquisita per il 2020 è pari a -4,9%. Ci può dire quanto il Pil può scendere ancora nei prossimi tre trimestri per non superare il -8% stimato nel Def?

Sappiamo che il secondo trimestre sarà pesantemente condizionato dalla chiusura delle attività produttive di aprile e da una lenta ripartenza a maggio. Direi quindi che il Pil dovrebbe diminuire in misura consistente anche nel periodo aprile-giugno, per poi risalire in misura più o meno decisa nei trimestri successivi. La previsione del Governo può essere rispettata se riusciamo a mettere in moto una ripresa consistente a partire dall’estate, supportata da politiche pubbliche – nazionali ed europee – in grado di sostenere i livelli di attività economica, l’occupazione e il reddito disponibile delle famiglie.



L’Istituto ha appena fatto un’audizione sul Def. Che cosa è emerso?

Abbiamo fatto delle stime relative alle aziende che si sono fermate. Parliamo di 2,1 milioni di imprese, pari al 48% del totale per 7,1 milioni di addetti, di cui 5 milioni dipendenti. Queste imprese generano 1.350 mld di fatturato, il 41% del totale. Sono escluse l’agricoltura e le attività legate alle famiglie. 

In termini di Pil?

Si tratta di un segmento produttivo molto rilevante, che produce poco meno di 400 mld di valore aggiunto in un anno, circa un quarto del Pil nazionale.

È il nucleo duro del sistema produttivo italiano.



Le più penalizzate sono soprattutto le imprese esportatrici, quelle che davano una forte mano a mantenere in piedi una situazione economica già incerta. Dobbiamo affrontare il futuro partendo da qui.

Si ipotizzano una ripresa a V o a U piuttosto che una stagnazione a L. Quando vedremo il punto può basso economico e occupazionale?

Ci troviamo nel mezzo di una crisi della quale non siamo in condizione di governare i tempi. Il problema economico è stato generato da un’emergenza sanitaria esogena la cui evoluzione, apparentemente benevola, non ci consente però di immaginare come e con quali tempi potrà avvenire un’inversione. 

Scusi se insisto: quanto dovremo aspettare prima di tornare a crescere?

Nell’ipotesi di una ripresa economica, seppure a ritmi ridotti, a partire da maggio, il punto di minimo dei livelli produttivi – concentrato ad aprile – potrebbe essere già superato, mentre è possibile che gli effetti negativi sul fronte occupazionale siano ritardati, con una caduta delle attivazioni di nuovi posti di lavoro per un periodo non breve e una conseguente flessione del livello complessivo di occupazione.

Quindi non ci sono certezze.

Il grado di incertezza resta elevatissimo e la tempistica della ripresa la scopriremo solo alla luce di quello che ci diranno gli sviluppi. Va detto che l’epidemia ha investito il paese in modi molto diversi. La letalità è stata pesantissima al Nord, pesante al Centro e più morbida al Sud. Anche l’apparato produttivo, quando sarà in condizioni di ripartire, come in parte sta avvenendo, rifletterà questa situazione. 

Insomma, la partenza sarà differenziata, ma anche i suoi effetti.

È inevitabile. Se in certe aree del Mezzogiorno la riapertura non sarà molto lontana e arriverà ad essere a pieno ritmo, sarà difficile ottenere lo stesso risultato al Nord, dove si concentra la forza più produttiva del paese.

Siamo davanti ad un dilemma: da un lato il rischio sanitario, dall’altro quello economico. Salute e lavoro: quale dei due beni deve prevalere?

Chiunque si rende conto che siamo di fronte a due fenomeni di cui uno ha un effetto immediato, l’altro più diluito nel tempo ma non lontano. D’altra parte anche la caduta in povertà ha riflessi sulla qualità della vita e sugli aspetti di ordine sanitario: là dove non ci sono risorse, il sistema sanitario viene penalizzato in termini di funzionalità ed efficienza. Con effetti sulla salute e sulla sopravvivenza.

In concreto che cosa significa?

Dobbiamo cercare di essere talmente bravi da portare a casa entrambi i risultati. 

L’epidemia ha colpito la popolazione più anziana. Dal punto di vista economico quali saranno gli italiani più a rischio?

I giovani sono la popolazione economicamente più robusta dal punto di vista sanitario, ma più fragile dal punto di vista economico perché il loro lavoro sarà molto più a rischio di quanto non fosse prima della pandemia.

Fino a ieri le famiglie italiane sono state il primo ammortizzatore sociale. Sarà ancora così?

In un sistema come il nostro, le pensioni e i trasferimenti sono un paracadute per la stessa popolazione potenzialmente disoccupata. Ma non possiamo sapere se questo sistema di welfare terrà senza avere davanti lo scenario che dovremo affrontare. 

Può azzardare un’ipotesi?

Possiamo essere più o meno ottimisti. Se lo siamo e immaginiamo che l’occupazione in qualche modo terrà, potremo contare su una forza lavoro con ancora buone capacità di spesa e in grado di esprimere una domanda e una qualità di vita accettabili. Il quadro potrebbe mutare radicalmente se moltissimi attivi dovessero entrare improvvisamente in condizioni di fragilità economica.

Dobbiamo aspettarci un paese diverso da quello che siamo adesso?

Potremmo diventare un paese non radicalmente diverso, ma un po’ differente sì. Se domani dovessimo tornare tutti in strada, non lo faremmo soltanto con la mascherina, ma con preoccupazione e con attenzione a una serie di cose che prima non avremmo considerato. Molte situazioni saranno vissute da noi in un modo nuovo, cambierà forse il nostro sistema dei valori.

Che cosa intende?

Ci siamo resi conto, ad esempio, di quanto sia precaria la nostra stessa sopravvivenza, e quanto sia importante disporre di un sistema sanitario affidabile.

Il nostro lo è?

Ci siamo detti per molto tempo, soprattutto in Lombardia, che eravamo tra i primi al mondo. Eppure, il coronavirus ci ha messo davanti al fatto che può esserci un colpo di vento talmente forte che anche la casa più robusta rischia in qualche modo di cadere. Forse qualcuno se n’era reso conto, ma gran parte degli italiani assolutamente no. Adesso lo sanno.

Cosa può dirci sugli effetti demografici del Covid-19, cominciando dalla mortalità e dall’aspettativa di vita?

Innanzitutto una premessa. Paragoniamo l’epidemia di Covid-19 alla febbre “spagnola” non tenendo conto che parliamo di un secolo fa e di una popolazione che era uscita prostrata dalla guerra. Nell’ottobre 1918 si aggiunsero quasi 250mila decessi a quelli usualmente attesi e quasi altri 120mila in più a novembre. Ma non è l’unico antecedente significativo. 

A che cosa si riferisce?

Al 1956, un anno caratterizzato dall’assenza di quel benessere che avremmo toccato negli anni successivi, aggravato da un inverno rigidissimo; oppure al 2015, che è stato segnato dalle polemiche sui vaccini e da un’ondata influenzale violenta. In entrambi i casi, c’è stato un aumento di 50mila morti rispetto all’anno precedente.

E in tempo di Covid-19? 

Dipende dagli scenari ipotizzabili. I risultati dicono che il numero annuo dei decessi nel corso del 2020 si accrescerebbe da un massimo di 123mila casi a un minimo di 34mila. In ogni caso la componente anziana in Italia manterrebbe un significativo livello di crescita.

Sono o non sono variazioni significative?

Il virus è arrivato molto velocemente, in pochi giorni ha colpito zone specifiche con una virulenza tremenda. Per arrivare ad un contenimento degli effetti, non avendo ancora un vaccino, si rende indispensabile la collaborazione di tutti.

Veniamo all’aspetto forse più interessante, quello della natalità. Qual è il contesto di riferimento?

Il paese ha una storia di caduta della natalità che comincia alla metà degli anni 60 e continua fino ad oggi. Per capirci, dalle 577mila nascite del 2008 siamo scesi anno dopo anno alle 435mila nel 2019. Questo è lo scenario di riferimento in cui sopravviene il Covid-19.

In questo quadro, come potranno agire nel ridefinire i modelli riproduttivi della popolazione i due effetti che abbiamo visto legati al coronavirus, quello psicologico e quello economico?

Nelle simulazioni, pubblicate sul sito dell’Istat, si analizzano due antecedenti significativi: il disastro di Chernobyl e la crisi greca 2010-2013. Il primo è interessante soprattutto per le conseguenze psicologiche e per l’arco temporale della crisi, pari a 2-3 mesi. La paura del nemico invisibile, nel 1986, indusse chi desiderava un figlio ad aspettare l’evoluzione degli eventi. Ci fu anche un incremento degli aborti volontari, dovuto alla paura di malformazioni. Se il Covid-19 avesse gli stessi effetti di intensità e durata, perderemmo 10mila nati, di cui un terzo a dicembre 2020 e due terzi nei primi mesi del 2021.

E se invece avessimo a che fare con una lunga crisi economica?

In questo caso è utile rifarsi ad altri precedenti shock economici. Uno è quello dell’ex DDR negli anni 1989-91. In tre anni la natalità si è dimezzata, passando dai 200mila nati dell’89 ai 90mila del ’91. L’altro è quello della Grecia nel periodo 2008-2013 quando i 120mila nati sono scesi del 20%. Nel caso greco, ciò è avvenuto in presenza di una crescita del tasso di disoccupazione di 20 punti percentuali (dal 7,7% al 27,3%).

Ipotizziamo che anche in Italia avvenga qualcosa di simile.

Se il nostro tasso di disoccupazione (9,8% a febbraio 2020) avesse un incremento di 15 punti percentuali scenderemmo facilmente nel 2021 sotto i 400mila nati. Uno scenario che nelle previsioni Istat ante Covid-19 era considerato soltanto tra 20 anni nell’ipotesi più pessimistica.

(Federico Ferraù)

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