Il Covid-19 ci ha costretto tutti a una situazione innaturale. Viste da vicino, le precauzioni prese sulla “distanza sociale” sono rivelatrici di una distorsione radicale del problema e rivelano una sostanziale incapacità operativa. Ovviamente è vero che, in una pandemia come quella attuale, le distanze di sicurezza vadano certamente mantenute. Ma è altrettanto visibile come si sia dinanzi a un avvitarsi della norma su se stessa, a un’ipertrofia della regola, gonfiata a dismisura per nascondere la tragica incapacità operativa su altre e ben più consistenti variabili.
Si è attaccata, infatti, la dimensione più indifesa e meno protetta della vita civile: quella della vita relazionale, opportunamente sminuita e ridotta alle gite fuori porta e agli incontri sulla piazza.
Nel rigore della distanza sociale, degno della Ginevra di Calvino, sono rientrati anche i riti liturgici, con i carabinieri in chiesa pronti a interrompere un funerale (con tredici persone a distanza di sicurezza e regolare mascherina) o a multare un solitario bagnante in una spiaggia completamente deserta.
La fase 2 non sembra ancora farci uscire dal tunnel. Lo stesso clima di tensione costantemente risollevato da parte dei media contribuisce ad alimentare un’ansia sociale crescente, dotando di fatto il decreto di quel carattere di dolorosa inevitabilità che riduce al silenzio ogni possibile opposizione. Concedendo i funerali a presenze ridotte e consentendo le visite ai soli “congiunti”, la fase 2 presenta delle disposizioni che rivelano qualcosa di più di una semplice proliferazione di regole. Un simile “compatto” giuridico-mediatico conferma in realtà il vistoso sbilanciamento dell’intera azione di governo verso l’unica dimensione nella quale le riesce di agire: quella regolativa della vita sociale.
Si continua così a stravolgere la vita delle famiglie, impegnandole in un defatigante rigore ed estenuando la vita quotidiana sotto minaccia di un ritorno del Covid-19. Ci si accanisce così sull’anello debole della catena per ovviare alla manifesta inefficacia su ambiti di maggiore impegno organizzativo, come lo è la capacità di provvedere alla distribuzione di mascherine e tute monouso, o come lo è la manifesta incapacità di distribuire quegli aiuti alle imprese costrette a restare inattive.
È proprio in ragione di una tale manifesta inettitudine su ciò che richiederebbe capacità organizzativa e speditezza amministrativa che l’isolamento e il “controllo delle distanze” finiscono con l’occupare tutto lo spazio dell’intervento di governo, in quanto restano l’unica risposta operativa: quella più semplice da realizzare.
Una tale strategia, ovviamente, può riuscire solo a condizione di declassare la dimensione sociale a “sacrificio” minore; un sacrificio che solo una coscienza scandalosamente irresponsabile potrebbe difendere e che, per di più, sembra ridursi a una banale rinuncia agli aperitivi o al passeggio nei centri commerciali: cioè a una vita, tutto sommato, fatta solo di sport e tempo libero, alla quale si può ben imporre di restare inattiva dinanzi alla gravità del problema.
Nemmeno per un momento le diverse task force dietro le quali sembrano rifugiarsi i nostri governanti hanno saputo cogliere l’importanza di un gesto ancestrale e antropologicamente centrale come lo è il rito funebre per una persona cara scomparsa. Nemmeno per un momento hanno pensato che i riti religiosi potessero rappresentare qualcosa di più di una semplice ricorrenza per anime pie. Così, adesso – una volta imprigionati nella stessa logica riduttiva di una società che non sanno vedere, né comprendere – incappano nel problema dei “congiunti”; come se le relazioni significative fossero solo quelle con i parenti, arrivando così a dettare inopinatamente le regole di una graduatoria di importanza sociale, alla quale in realtà non hanno nessun diritto di accesso.
Così dopo aver legiferato su ciò che è antropologicamente decisivo dell’umano, come lo sono i funerali e l’accompagnamento della salma della persona scomparsa, hanno messo in ordine il diritto di culto semplicemente proibendolo, fino ad arrivare a dettare le regole relazionali secondo le quali è concessa la visita ai congiunti, mentre resta negata agli altri che congiunti non sono.
Se ci fossero stati gli opportuni interventi per i materiali di protezione e se il nostro governo fosse stato capace, come i suoi partner europei, di distribuire immediatamente le risorse economiche a tutte le realtà produttive obbligate al blocco e a tutte le famiglie rimaste senza reddito, anche la tensione sulla “distanza sociale” sarebbe stata meno ossessiva. Ma non sapendo fare altro ci si è concentrati sulla cosa più semplice, sulla regola più facile da imporre, osservando che, in fin dei conti, non si tratti che di “restare sul divano”.
Probabilmente è così per una parte consistente dell’élite di governo. Ma la loro vita non è quella di tutti e soprattutto non è quella della maggioranza degli italiani. L’élite dirigente ha così commesso l’errore di pensare un’Italia a misura della propria esistenza e dei propri stili di vita. In realtà, c’è una vistosa frattura sociale in corso, ma non se ne sono ancora accorti.