Cambiare: questa crisi può essere l’occasione per cambiare. Lo ha detto Carlo Bonomi nelle sue prime dichiarazioni da Presidente designato della Confindustria. Cambiare è il verbo che corre di bocca in bocca e ciascuno gli appiccica il proprio significato. Nulla sarà come prima, nulla dovrà essere come prima. Cambiare, ma come e con chi? Sembra un dibattito da sofisti, invece proprio ora che si va verso la riapertura delle gabbie domestiche dove siamo rinchiusi è fondamentale avere idee per il dopo; cominciando proprio dal modo in cui avverrà il ritorno al lavoro fino all’utilizzo delle risorse messe a disposizione da scelte senza precedenti come la pioggia di denaro liquido della Banca centrale europea o la sospensione del Patto di stabilità che consente ai governi di indebitarsi in modo massiccio, quasi ovunque dal 20% al 30% del prodotto lordo annuo secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale. Poi ci sarà il Mes, ci sarà il fondo per la ripresa, probabilmente ci saranno eurobond o coronabond che dir si voglia, strumenti importanti, ma complementari alla scelta fondamentale compiuta ovunque: la monetizzazione del debito.



Cambiare dunque, e l’Italia ne ha bisogno più di altri perché il crollo qui è più pesante (circa il 9-10% del prodotto lordo), perché ogni settimana di chiusura ci costa mezzo punto di prodotto lordo, secondo le stime della Banca d’Italia, e perché siamo partiti da crescita zero, mentre tutti gli altri Paesi erano in crescita sia pur a ritmo più basso rispetto agli anni precedenti. La prima indicazione è dunque spingere sullo sviluppo, non la redistribuzione, ma la produzione di reddito. Tutte le politiche che favoriscono la crescita debbono diventare prioritarie al contrario di quel che si è fatto negli ultimi anni in cui è prevalsa la spartizione di una torta che non c’è. Nell’immediato occorre sostenere imprese e famiglie che hanno perso i loro introiti e probabilmente bisognerà indennizzare, con trasferimenti a lungo termine se non a fondo perduto, il fatturato cancellato dalla pandemia.



Tuttavia le misure d’emergenza non sono tutto e le risorse non vanno distribuite a pioggia. Il Governo e le forze politiche in generale dovrebbero scegliere una linea di condotta comune capace di far fronte alle priorità che la crisi ha messo in luce.

Le fabbriche riaprono, ma per fare che cosa? Davvero pensiamo che possano tutte produrre tutto quel che producevano prima? O ci sono settori da potenziare anche con stimoli di vario genere e altri magari da accompagnare nella loro inevitabile crisi? Per rispondere conviene partire da chi ha continuato a lavorare in queste settimane.

La sanità innanzitutto, deve diventare un settore strategico, l’intera filiera della salute che va dalle università alle farmacie va inserita in un progetto nazionale che non esclude la gestione locale, ma dentro un vero e proprio programma complesso, mettendo insieme pubblico e privato. L’industria farmaceutica mostra anche in questa pandemia punti di eccellenza, però nessuna delle prime cinque aziende ha un fatturato che arriva a un miliardo e mezzo di euro, sono dieci, venti volte più piccole dei grandi gruppi europei. Se la sanità è strategica, occorrono scorte strategiche, cuscinetti per l’emergenza come per il capitale delle banche o per le forniture di petrolio.



L’universo digitale è diventato ormai il nostro universo quotidiano, rivelando quanto l’Italia sia ancora indietro e mettendo in luce il fossato geografico e generazionale che divide il Paese. Da quanti anni si discute sulla rete a fibra ottica e ad alta velocità? Eppure ancora oggi esistono reti diverse, piene di buchi e smagliature, a bassa velocità quando il traffico compie un balzo come in queste settimane. La situazione attuale può andar bene finché l’Italia resta poco digitalizzata, ma la domanda è destinata a cambiare e così deve fare anche l’offerta. E da quanto tempo si sente ripetere che debbono riaprire i cantieri, mentre crollano ponti, viadotti, strade e autostrade?

I piccoli negozi vengono messi a terra dalla pandemia a favore della grande distribuzione. Ma non è un destino cinico e baro, si può mantenere il panettiere o il salumiere all’angolo aiutandolo a specializzarsi e a entrare nella nuova dimensione dell’e-commerce e della vendita a domicilio.

Riconversione, dunque, anche, forse soprattutto, nella manifattura. L’Italia è diventata molto forte come subfornitrice di grandi gruppi industriali europei (tedeschi in primo luogo), americani e cinesi. La meccanica è il nostro forte, ma proprio questa viene attraversata da una corrente che spinge verso l’elettrificazione e la digitalizzazione, oggi più di ieri. L’auto elettrica avrà due terzi di componenti in meno dell’auto attuale. Il petrolio è destinato a declinare nei prossimi anni. E così via. Verranno a mancare molti sbocchi oggi essenziali alla manifattura italiana. La recessione farà il resto.

Il turismo sarà il comparto più colpito, ma anche qui occorre favorire la sua ristrutturazione. Il boom degli anni scorsi si è basato in buona parte sui bed&breakfast, una variante del piccolo è bello, dello spontaneismo di base che è una caratteristica e una risorsa del modello economico italiano, ma diventa la sua debolezza se non cresce, non si rafforza, non si struttura. L’Italia potrebbe essere la numero uno viste le sue immense risorse culturali e naturali, ma deve considerare questo settore in modo sistemico e come una vera e propria filiera industriale.

Sono solo alcune indicazioni sparse; il comitato, anzi, il pensatoio guidato da Vittorio Colao, dovrebbe darci indicazioni più ampie e precise a un tempo. Una cosa è certa: la baruffa sul Mes, diventato uno spartiacque elettorale, appare di retroguardia rispetto al confronto sul nostro futuro. I 37 miliardi di euro che potrebbero toccare all’Italia sono utili, sia chiaro, sono però noccioline rispetto alle risorse che già oggi vengono messe in campo e ancor più a quelle necessarie se si vuole davvero cambiare.

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