Il film Father Stu, tratto da una storia vera, narra la vita di Stuart Long, pugile professionista che per un problema alla mascella appende i guantoni al chiodo. Si reca a Los Angeles per trovare la via del cinema e qui incontra Carmen, giovane cattolica, se ne innamora ricambiato, ma su richiesta della ragazza si deve battezzare. Nel frattempo ha un incidente in moto da cui si salva per miracolo e, dopo il battesimo, sceglie di entrare in seminario per diventare sacerdote. Viene accolto con riserva data la sua vita passata non certo immacolata.
Durante gli studi scopre di avere una malattia tipo SLA e i responsabili del seminario decidono di non ordinarlo sacerdote. Questo avverrà comunque in seguito, resterà per qualche anno in una parrocchia e poi sarà ricoverato in una struttura ospedaliera per gli ultimi anni di vita, dove diventerà un riferimento spirituale per molte persone.
Sono stato stringato nella sinossi, sennò i miei due fedeli lettori mi insultano (potrei fare nome e cognome), ma soprattutto perché vale la pena di vederlo con testa e cuore, uno dei pochi film che fanno riflettere sulla vita.
Forse la trasposizione in pellicola è un po’ romanzata, certo non è melensa, anzi è drammatica. L’idea del film è dell’attore protagonista Mark Wahlberg, che è anche il produttore, cioè colui che ha cacciato i dollari per un progetto non tanto di cassetta, ma per scelta. Anni or sono Wahlberg aveva sentito da un suo amico sacerdote la storia della vita di Stuart Long, ci ha lavorato diversi anni finché ha assoldato come sceneggiatrice e regista Rosalind Ross. Chi è? È la compagna attuale di Mel Gibson, che interpreta il padre di Stuart. Molti vedono nella regia la sua mano, ma che cavolo, se partecipasse a un mio film sarei un pazzo a non chiedergli consigli.
Wahlberg ha una storia particolare alle spalle, vissuto sulla strada, a sedici anni è entrato in carcere, ma è stato riportato sulla retta via da un amico sacerdote. È diventato poi una star del cinema e in un’intervista tv se ne è uscito con un’affermazione particolare: sono cristiano cattolico praticante. In Italia i media l’avrebbero crocefisso, negli Usa, probabilmente frega a pochi, interessano di più le sue performance cinematografiche.
Il film mi ha fatto riflettere su un paio di cose. È Dio che sceglie Stuart, aveva frequentato il college ma non aveva nessuna idea di cosa fosse il cristianesimo, lo apprese pian piano nel corso di preparazione al battesimo. Una preferenza che gli ha rivelato quello che cercava disperatamente dentro di sé. Da qui la certezza:
Dio mi ha salvato e perdonato e voglio essere d’aiuto agli uomini.
E così si conferma nella scelta della vocazione sacerdotale. Ma arriva la malattia e lo troviamo in chiesa disteso sotto il crocifisso, ormai incapace di camminare che urla a Gesù:
Perché? Ti ho dato tutto e mi hai abbandonato.
Ma anche qui sta la preferenza di Dio, nel dolore e nella sofferenza della carne, finché riuscirà a dire al padre (Mel) scettico:
Dio non sbaglia mai.
Cioè porta a termine la Sua opera e io mi son domandato: sono certo di questo?
Su Youtube c’è un’intervista/racconto di una ventina di minuti in cui il vero Stuart Long snocciola la sua storia senza parlare di misticismo o di visioni, ma con umiltà, semplicità e concretezza racconta i fatti che ha vissuto per arrivare a Dio. È malato ma è lieto. Morirà a cinquant’anni lasciando nel microcosmo del paese dove era ricoverato una traccia di Dio.
Wahlberg è ingrassato di 15 kg per assumere le sembianze di un ammalato di tale patologia, maniacale nei particolari, come dire che Dio passa anche in quelli. Non è a caso probabilmente l’interpretazione di Mel Gibson (ripensando agli alti e bassi della sua vita privata), padre scettico e ubriacone, travagliato nell’animo dalla perdita in tenera età del fratellino di Stuart che, alla morte del sacerdote, intravede una speranza per lui e sua moglie.
Il film è uscito negli States ad aprile 2022 durante la Settimana Santa. È passato su Sky a dicembre, ma lo potete noleggiare a pochi euri in streaming. Ne vale la pena.
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