Se guardate, come me, le serie tv anche per girare il mondo e raggiungere mete lontane e pericolose comodamente seduti sul divano di casa, dovete vedere la serie israeliana Fauda. Non vi sto proponendo, come avete già capito, un giro turistico verso mete paradisiache. Tutt’altro, perché Fauda è un viaggio drammatico attraverso la realtà odierna dei Territori palestinesi. Stiamo parlando di quella parte della Cisgiordania che dal 1995 – dopo gli accordi di Oslo – è sotto l’amministrazione dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat, ma che non gode di un’effettiva indipendenza e soprattutto non ha mai conosciuto la promessa crescita economica.



In realtà nella seconda metà degli anni ’90 le città della Cisgiordania furono considerate luoghi per potenziali affari da parte di investitori coraggiosi e filo-arabi. C’era da costruire, praticamente da zero, ogni cosa: fabbriche, alberghi, case, ospedali, scuole. La dotazione finanziaria in dollari strappata da Arafat grazie agli accordi di pace appariva più che sufficiente a innescare e garantire sviluppo e benessere. Era questa la sfida dell’ala moderata del movimento di liberazione, ma anche il desiderio delle forze progressiste israeliane, per dare stabilità alla regione.



Ma ben presto le cose presero un’altra piega. la storia ci racconta infatti di 20 anni di fallimenti, violenze, inutili “cessate il fuoco”. Sono gli anni segnati dalla crisi di leadership dell’Olp e dal predominio di Hamas, l’organizzazione paramilitare che non ha mai creduto alla convivenza con la vicina Israele.

Oggi regna il caos, in arabo “fauda”. La situazione si è ulteriormente aggravata in seguito al rafforzamento nella vicina Siria del fondamentalismo islamico. Quei territori, a cui si è aggiunta definitivamente nel 2005 la striscia di Gaza, sono tra le aree più povere della terra, abbandonate, impenetrabili. Uno sterminato campo profughi.



Ed è questo lo scenario che fa da sfondo a Fauda, la famosa quanto discussa serie tv uscita in Israele nel 2016, che racconta la vita di Doron Kabilio, un militare per metà ebreo e per metà arabo, membro di una squadra speciale dell’esercito israeliano, che ha il compito di infiltrasi nei Territori palestinesi e dare la caccia ai terroristi annidati appena oltre il confine e pronti a colpire.

La scelta degli autori è stata quella di dare vita a un racconto il più possibile imparziale, a cominciare dal rispetto della lingua originale dei protagonisti, fino a suddividere equamente il tempo dedicato al racconto dai diversi e contrapposti punti di vista.

La storia, anche se evoca una tipica serie poliziesca, va molto in profondità, perché cerca anche le ragioni più profonde e personali che spingono intere famiglie ad aderire al terrorismo, come la sfiducia che spesso genera la violenza e l’intolleranza.

La serie racconta questa lotta senza fine e senza esclusione di colpi tra due mondi contrapposti. Gioca sui sentimenti, come l’amore, la fedeltà, il tradimento. Rende chiaro come le condizioni di vita, la povertà, l’assenza di rispetto per le donne, siano il terreno fertile per una crudeltà a volte gratuita.

Se le prime due stagioni sono girate nei Territori palestinesi a est di Gerusalemme, e si cammina nei meandri della casba di Nablus, nei moderni quartieri di Ramallah, nelle moschee di Hebron, la terza stagione – disponibile da qualche settimana su Netflix – è interamente girata nella Striscia di Gaza.

Gaza aveva un destino di città turistica, non avendo nulla da invidiare alle più fortunate località di villeggiatura lungo la costa verso nord, che si spinge fino al Libano. Ma ormai da anni la Striscia è un luogo tragico, uno Stato nello Stato, alcuni scorci ricordano la nostra Castelvolturno per tutta quella povertà che si mangia il cemento abbandonato. È ormai totalmente nelle mani di Hamas, ed è per questo motivo una città chiusa al mondo, in particolare agli israeliani che –  sempre per quegli astrusi accordi – sono tenuti comunque a fornire la corrente elettrica.

La terza stagione ruota intorno al rapimento di due ragazzi israeliani e ai ripetuti tentativi di liberarli. La squadra speciale di Daron si insinua in territorio nemico e lo sfida in una lotta metro per metro. Anche questa volta la stagione termina con un finale amaro, una dura sconfitta  per tutti, che lascia poco spazio alla speranza.

La serie – dopo il grande successo in Israele è pronta a sbarcare anche negli Stati Uniti – è stata ideata dal giornalista Avi Issacharoff e dall’attore Lior Raz, che interpreta anche il ruolo di Doron, entrambi con un passato nell’esercito. Daron incarna pienamente questa confusione dominante: è un arabo ebreo, ha rispetto per le vittime, ma quando si trasforma in giustiziere diventa violento, ama i suoi figli e le donne che gli sono fedeli, ma un po’ alla volta perde tutti, perché la violenza di cui vive ricade in primo luogo proprio sui suoi cari.

La serie tv è stata duramente criticata sia da parte della politica israeliana che di quella palestinese. In fondo è un racconto neutrale e si percepisce che gli autori sono giunti alla conclusione che non solo non c’è più una soluzione politica per il conflitto, ma soprattutto che si sta perdendo anche la possibilità di una minima convivenza pacifica. In fondo, sarebbe questo l’unico obiettivo credibile che rimane a chi vuole davvero la pace.