Il nome più fatto in rapporto ai gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo è quello di Sergio Citti, autore post-pasoliniano poco considerato eppure piuttosto influente. Stando a Favolacce, il secondo lungometraggio del duo dopo La terra dell’abbastanza distribuito sulle piattaforme on demand dopo la vittoria di un premio per la sceneggiatura al Festival di Berlino, è un nome speso bene, ma che potrebbe limitare un po’ la riflessione sul loro film.



Il film è ambientato a Spinaceto, estrema periferia sud-ovest di Roma, e racconta le storie di alcune famiglie di abitanti attraverso i loro figli, le loro meschinità sotterrate e quelle che poi vengono a galla, non un racconto unitario, ma una serie di “storie scellerate”, per dirla appunto con Citti, in cui mettere in mostra un’umanità mostruosa, tra grottesco e realismo.



Scritto dagli stessi fratelli, Favolacce è un dramma corale con al centro un gruppo di adolescenti e pre-adolescenti che guarda all’umanità di periferia con occhi molto diversi dal precedente film, ambientato a Tor Bella Monaca: quel senso di umanesimo che fioriva qua e là dal film del 2018 è del tutto assente in questo proprio a partire dalla scelta di filtrare lo sguardo con gli occhi dei bambini.

Fin dall’inizio, dalla voce del “narratore” Max Tortora che racconta di aver trovato il diario di una bimba e di averne continuate le storie una volta sospeso il diario (“Questa storia è ispirata a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”), i D’Innocenzo giocano sul doppio binario del rapporto tra adulti e ragazzi, raccontano l’umanità presente che cova nell’infantile sadismo di chi non sa crescere e quella futura, che non può che imparare imitando gli adulti. Da qui, il senso di disagio costante che trapela da quei racconti, il malessere di un piccolo mondo contemporaneo che apprende solo il peggio da ciò che vede.



Uno dei pregi, forse il principale, di Favolacce è il rifiuto del naturalismo soprattutto inteso come sguardo, come approccio alla materia: i D’Innocenzo non cercano l’affresco socio-culturale sebbene quelle figure che descrivono siano riconoscibili, ci siano analogie con le persone che ci circondano, ma vogliono estrarre il cuore nero, ora trattenuto ora accentuato, di una certa società e di una certa cultura, vogliono mostrarne il malessere non pontificare su di esso, perciò alla base ci sono le favole nella loro peggiorativa versione.

Se così non fosse al film e ai loro autori si potrebbe imputare di adagiarsi su una disperazione al limite col cinismo, come fosse una scorciatoia; e invece, proprio il modo di tessere una tensione ribollente, inespressa e implosa, di concentrarsi sul prima e sul dopo dell’orrore lasciando all’inconscio dello spettatore l’elaborazione del durante, è la chiave vincente del film. Anche in senso estetico e filmico, Favolacce è un film potente e indipendente dall’egida pasoliniana: si guardi la maestria con cui i D’Innocenzo riprendono due sequenze speculari, quella in cui il figlio di Elio Germano rischia di strozzarsi con la carne, ripresa in campo lunghissimo, e la scena madre, tutta in primi e primissimi piani che non svelano.

Ecco, guardare, senza mostrare, comunicare emozioni e sensazioni: sta qui il talento dei gemelli.